Ardillo Sabrina - Psicologa cognitiva - Psicoterapeuta Cognitivo Comportamentale - Esperta in Neuropsicologia

Approfondimenti e articoli

ADHD: epidemiologia, eziologia, diagnosi e trattamento

Cos'è l'ADHD: Il disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD) è caratterizzato da un livello di attenzione scarso, inadeguato per lo sviluppo, o da aspetti di iperattività e impulsività inappropriati all’età, o da entrambi.
Si tratta di bambini con alti livelli di attivazione, i quali non possono stare fermi, sono irrequieti e impulsivi, parlano incessantemente e spesso ad alta voce.
Per porre diagnosi di ADHD il disturbo deve essere presente per almeno sei mesi - e in almeno due contesti di vita (scuola e famiglia) - e causare compromissione delle prestazioni scolastiche e sociali. Alcuni sintomi, inoltre, devono manifestarsi prima dei 12 anni. Il DSM-V, elenca tre manifestazioni di ADHD:
1. manifestazione con disattenzione predominante;
2. manifestazione con iperattività-impulsività predominanti;
3. manifestazione di tipo combinato.
Così, un bambino può essere inquadrato in un disturbo caratterizzato da soli sintomi di disattenzione o da sintomi di iperattività e impulsività ma senza disattenzione. Epidemiologia: L'ADHD è molto più frequente nei maschi che nelle femmine con un rapporto che varia tra il 4:1 e il 9:1 nei diversi studi. Solitamente si considera che il 3-5% della popolazione in età prescolare presenti ADHD. Un bambino con ADHD ha il 40% di possibilità che uno dei suoi genitori abbia il suo stesso disturbo. Benché l’esordio avvenga di solito entro i 3 anni, la diagnosi non viene generalmente posta finché il bambino non va a scuola e viene richiesto un livello di attenzione e concentrazione appropriato per il grado di sviluppo. Eziologia: La maggior parte dei bambini con ADHD non mostra segni di danno cerebrale e la mancanza di una base neurofisiologica e neurochimica specifica del disturbo suggerisce una causa multifattoriale. Ci sono molte malattie che possono causare sintomi dell’ADHD, come ad esempio: malattie della tiroide; anemia; avvelenamento da piombo; disturbi del sonno; abuso di sostanze; epilessia. Altri fattori che sembrano associati all’ADHD includono: nascita prematura, basso peso alla nascita ed esposizione a fumo e alcol durante i mesi di gravidanza. Al momento le ipotesi eziologiche maggiormente accreditate sono quella genetica, quella dell’ipofunzionamento dei lobi frontali e l’ipotesi psicosociale. Decorso: Il disturbo viene solitamente diagnosticato durante le scuole primarie e nei casi eccezionali durante le scuole dell’infanzia. Fino agli anni Settanta, i clinici condividevano l’opinione che il disturbo presente durante l’infanzia sarebbe scomparso in adolescenza con la maturazione delle funzioni cerebrali. In realtà, circa la metà dei soggetti continua a mostrarne i sintomi cardine, accompagnati spesso da problemi a livello personale e interpersonale. Il disturbo è relativamente stabile durante la prima adolescenza e i sintomi si attenuano durante la tarda adolescenza e l’età adulta. L’iperattività è il primo sintomo a recedere mentre la distraibilità è l’ultimo. La maggioranza dei pazienti con ADHD è vulnerabile al disturbo antisociale di personalità, ai disturbi dell’umore, a un disturbo correlato a sostanze, soprattutto quando i sintomi persistono nell’adolescenza. Nel 15-20 % dei casi, i sintomi di ADHD persistono nell’età adulta, ci può essere una riduzione dell’iperattività ma i soggetti restano impulsivi e proni agli incidenti. Il decorso dell'ADHD può essere schematizzato come segue:
1. Caratteristiche dell'ADHD in età prescolare: marcata iperattività, sonno discontinuo e agitato, aggressività e litigiosità, frequenti scoppi d'ira, oppositività, scarsa percezione del pericolo con presenza di frequenti incidenti.
2. Caratteristiche dell'ADHD in età scolare: evidente disattenzione, impulsività e iperattività, tendenza a evitare compiti complessi e lunghi, difficoltà scolastiche, comportamenti aggressivi e provocatori, senso di inadeguatezza e scarsa fiducia nelle proprie capacità, relazioni sociali difficili.
3. Caratteristiche dell'ADHD in adolescenza: evidente disattenzione, carente capacità di organizzazione e pianificazione, riduzione dell'iperattività, abuso di sostanze, problemi emotivi, comportamento aggressivo.
4. Caratteristiche dell'ADHD in età adulta: scarso successo lavorativo, difficoltà di inserimento sociale, comportamento antisociale e delinquenza.
Diagnosi Il processo diagnostico dell'ADHD può essere schematizzato nelle seguenti fasi:
1. raccolta di informazioni da fonti multiple (genitori, insegnanti, educatori) utilizzando interviste semistrutturate e/o questionari standardizzati sui diversi aspetti del comportamento e del funzionamento sociale del bambino;
2. intervista al bambino stesso, per indagare il livello di consapevolezza delle proprie difficoltà e i vissuti ad esso associati.
È opportuno effettuare una valutazione neuropsicologica e, possibilmente, una valutazione degli apprendimenti per ottenere conferme per la diagnosi, delineare il profilo funzionale, effettuare una diagnosi differenziale per i disturbi di tipo cognitivo o neuropsicologico e creare le premesse per programmare un eventuale intervento di potenziamento cognitivo. La valutazione neuropsicologica di solito include una valutazione del funzionamento intellettivo, delle varie componenti dell'attenzione e delle funzioni esecutive. Trattamento Gli obiettivi del trattamento dell'ADHD sono descrivibili su tre livelli:
1. obiettivi di tipo cognitivo: quali processi devo aumentare?
2. Obiettivi nell'area delle emozioni: devo accrescere la sua autostima? Devo fare in modo che il bambino reagisca meglio agli insuccessi?
3. Obiettivi nell'area dei comportamenti: devo aumentare il livello di autocontrollo del bambino?
Dopo l'attuazione dell'intervento, diventa importante passare alla fase del monitoraggio, ovvero al momento del controllo dei risultati, da effettuare con l'ausilio di strumenti testologici e con l'osservazione qualitativa.

Pubblicato da Dr. Davide Viola Bibliografia Viola D. (2011), Disturbi dell'attenzione. Sopravvivere all'ADHD, Libreria Universitaria Edizioni, Padova

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Alzheimer: definizione e metodi di intervento

L’Alzheimer, o più precisamente la Demenza Tipo Alzheimer, come viene definita dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, è la più comune delle demenze senili.
Si tratta di una malattia complessa, la cui prevalenza aumenta drammaticamente con l’avanzare dell’età, che comporta una sindrome cerebrale organica cronica e irreversibile caratterizzata da una progressiva perdita delle funzioni cognitive.
I molteplici deficit cognitivi comprendono la compromissione della memoria (ossia della capacità di apprendere nuove informazioni o di ricordare informazioni già acquisite) e almeno una della seguenti alterazioni cognitive:
• afasia (deterioramento delle funzioni del linguaggio)
• aprassia (incapacità a eseguire funzioni motorie nonostante siano preservate le capacità motorie)
• agnosia (incapacità a riconoscere o a identificare oggetti nonostante siano preservate le funzioni sensoriali)
• un’alterazione del funzionamento esecutivo (incapacità a pensare in astratto, pianificare, organizzare, ordinare in sequenza).
Tali deficit provocano una menomazione del funzionamento lavorativo o sociale del soggetto che ne è affetto e rappresentano un deterioramento rispetto al suo precedente livello di funzionamento.
L’età di insorgenza dell’Alzheimer permette di distinguere due principali sottotipi: “con insorgenza precoce” se compare all’età di 65 anni o meno, “con insorgenza tardiva” se compare successivamente ai 65 anni.
Fra le complicazioni che si possono associare alla malattia vi sono deliri e umore depresso, che costituiscono ulteriori sottotipi (DSM IV TR, 2004).
Mentre la memoria a lungo termine rimane preservata più a lungo, la memoria a breve termine viene compromessa più precocemente, tanto che i malati possono dimenticare in pochi minuti ciò che hanno appena fatto o detto, e pertanto ripetere la stessa cosa più volte o fare discorsi confusi.
Danneggiandosi le funzioni intellettive, oltre alla capacità di parlare, anche quella di scrivere e fare calcoli vengono progressivamente compromesse. Parimenti ai disturbi neurodegenerativi e a una serie di disturbi neuropsichiatrici, anche la componente comportamentale e le attività della vita quotidiana vengono danneggiate.
Al fine di indicare turbe comportamentali clinicamente significative, come ad esempio il vagabondaggio, si può utilizzare la specificazione “con alterazioni comportamentali”.
I vari disturbi psicologici e del comportamento, noti anche con l’acronimo BPSD (Behavioural and Psychological Signs and Symptoms in Dementia) rendono ancora più difficile la vita in famiglia.

In ragione della sua complessità, tale malattia dovrebbe essere affrontata non soltanto con terapie farmacologiche ma anche con terapie non farmacologiche.

Negli ultimi anni è aumentato l’interesse verso i programmi di riabilitazione indirizzati ai pazienti con demenza, in parte a causa della scarsa efficacia dei trattamenti medici convenzionali, i quali offrono una iniziale possibilità di alleviare i sintomi, ma non di arrestare o invertire il processo degenerativo.
Così quando la malattia avanza, gli effetti negativi emergono con maggior invasività, la qualità di vita dei pazienti diminuisce drasticamente e si ricercano diverse forme di intervento.
La terapia riabilitativa attuale non è più dunque mirata solamente al massimo recupero possibile delle capacità fisiche e cognitive che le condizioni cliniche del paziente consentono, ma si pone l’obiettivo di migliorare globalmente la qualità della sua vita favorendo l’instaurarsi di un nuovo equilibrio personale, familiare e sociale.
Sono state messe a punto e sperimentate particolari metodologie di intervento rivolte a pazienti con deterioramento demenziale. Tra queste terapie non farmacologiche la più diffusa è probabilmente la ROT “Terapia di Orientamento alla Realtà” (Reality Orientation Therapy), ideata da Folsom, che ha l’obiettivo, attraverso una serie di domande e stimolazioni ripetute, di mantenere agganciato il paziente alla realtà ottenendo quindi sia un riorientamento personale/autobiografico che spazio/temporale.
La modalità in cui applicare la ROT è duplice: formale (sedute riabilitative di gruppo) e informale (stimolazioni durante tutta la giornata da parte del personale e possibilmente dei familiari che convivono con il paziente). In questo modo si mira ad ottenere sia il mantenimento delle funzioni cognitive residue che l’incremento delle interazioni sociali.
Un altro modello particolarmente diffuso è il Gentlecare, ideato da Moyra Jones, che, considerando le oggettive difficoltà che il paziente demente incontra interagendo con la realtà in cui vive, ha l’obiettivo di rendere quest’ultima il più possibile idonea a consentirgli l’autonomia riducendo le situazioni di stress, ansia, aggressività.
La “protesi”, costituita dallo spazio, dalle persone e dalle attività progettate per l’anziano, si presenta sicura, familiare, confortevole divenendo così un ausilio concreto per il miglioramento della qualità di vita. Nello stadio avanzato della malattia le facoltà cognitive, e quindi memoria a breve e lungo termine, nonché il sistema motorio dell’individuo si intaccano a tal punto che la persona necessita di assistenza continua.
Sarà essenziale in questa fase curare l’atmosfera ambientale (riduzione dei rumori ingerenti, di luci forti, ecc.) e adottare strategie relazionali basate sull’ascolto e sull’adeguamento costante della comunicazione verbale e non verbale (tono della voce, ritmo dell’eloquio, armonia di gesti e movimenti, ecc.) alle condizioni della persona.
La terapia della Validazione (Validation Therapy), ideata da Naomi Feil, si può utilizzare con l’anziano con decadimento cognitivo moderato o severo le cui carenti risorse residue renderebbero fallimentari i tentativi di riportarlo alla realtà oggettiva e nel momento attuale.
Questa terapia si basa sul rapporto empatico, sulla capacità di sintonizzarsi sul mondo interiore del paziente e di comprendere, e quindi validare, la sua realtà soggettiva.
Si possono utilizzare diverse tecniche a seconda dello stadio della patologia: esplorare i fatti facendo domande, avvicinare il paziente e, se accettato, cercare il contatto, utilizzare un tono di voce pacato e rassicurante, un linguaggio semplice e chiaro, agire con calma informando su ciò che si sta facendo, rispecchiare gli stati emotivi attraverso le espressioni del volto e il comportamento non verbale in generale.
Sulla stessa scia un altro approccio riabilitativo utilizzato con i malati di Alzheimer è il Conversazionalismo, ideato da Giampaolo Lai. L’applicazione di questo metodo alla malattia di Alzheimer parte dalla considerazione che nella fase intermedia della patologia il paziente riesce a fare discorsi articolati con parole corrette e frasi ben costruite che tuttavia non hanno un senso compiuto (afasia fluente).
Il conversazionalismo distingue così fra due funzioni del linguaggio, quella comunicativa e quella conversazionale. Nei pazienti con malattia di Alzheimer la prima funzione, quella comunicativa, decade precocemente, mentre la seconda, quella conversazionale, rimane intatta più a lungo.
L’obiettivo della terapia viene pertanto modificato, non si punta più a una comunicazione efficace, impossibile da perseguire quando decadono le funzioni cognitive necessarie per comunicare, ma a una conversazione felice, possibile da realizzare dal momento che le abituali regole del conversare, come il dare e prendere parola rispettando l’alternanza dei turni, rimangono preservate più a lungo.
Scopo prioritario del conversazionalismo è quindi “realizzare delle conversazioni felici, in cui il paziente parli, parli il più a lungo possibile e il più felicemente possibile” (Vigorelli, 2005).
Da menzionare è anche la Terapia della Bambola (Doll Therapy) sviluppata da Britt-Marie Egedius-Jakobsson, che utilizza appunto delle particolari bambole empatiche per favorire il benessere del malato.
L’uso di queste bambole permette di ottenere diversi vantaggi, infatti accudendo la bambola la persona si impegna in un compito che nella sua semplicità gli consente di distogliersi da ideazioni e stati emotivi confusi e sconclusionati che generano quel disorientamento spesso alla base dei disturbi comportamentali.
L’ansia, l’agitazione e le manifestazioni associate quali l’aggressività, il vagabondaggio o l’insonnia vengono modulati, come anche la depressione, l’apatia e l’inattività, pertanto il ricorso ai farmaci per contenere queste problematiche può essere ridotto.
Inoltre prendersi cura della bambola (cullandola, alimentandola, cambiandole l’abito, ecc.) implica la stimolazione di funzionalità motorie residue relative alla memoria procedurale ed offre la possibilità al paziente di sentirsi ancora utile e di sperimentare emozioni positive esternando bisogni emotivo-affettivi ancora presenti.
Infine indichiamo le artiterapie come valido supporto anche in questo tipo di patologie.
La musicoterapia in particolare si è rivelata un metodo sicuro ed efficace nel trattamento dei sintomi ansiosi, depressivi e delle alterazioni comportamentali.
Questi sono alcuni dei metodi con cui oggi si può, se non sconfiggere la malattia, quantomeno accompagnare le persone che ne sono affette in modo da valorizzare capacità e risorse residue ad ogni fase e rendere la qualità della loro vita quanto migliore possibile.

Bibliografia
Vigorelli P., Comunicare con il demente: dalla comunicazione inefficace alla conversazione felice, in «Giornale di gerontologia» 53 (2005) 483-487. Lazzarini G., L'educatore professionale. Per concorsi pubblici e percorsi formativi. I saperi dell'educatore professionale nelle strutture per anziani non autosufficienti, Rimini, Maggioli, 2013.

Pubblicato da Federica Addessi

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Bullismo: un modello per gli insegnanti

La vita sociale dei bambini e la loro vita scolastica devono andare di pari passo, anche se non hanno amici, se non sono accettati dai loro pari o sono vittime o autori di aggressione.

Questo significa che non siamo in grado di comprendere appieno i fattori che portano a risultati scolastici senza conoscere l'ambiente sociale dei bambini a scuola.

Ad esempio, i bambini che hanno pochi amici, che sono attivamente rifiutati dal gruppo dei pari, o che sono vittime di bullismo rischiano di non avere le risorse cognitive ed emotive per essere in grado di fare bene a scuola.

Il bullismo può avere effetti a lungo termine sul rendimento scolastico degli studenti; comunemente etichettato come vittimizzazione o molestie da parte del gruppo dei pari, il bullismo scolastico è definito come l'abuso fisico, verbale o psicologico delle vittime ad opera di autori che intendono causare loro danno (Olweus, 1993).

Le caratteristiche fondamentali che distinguono il bullismo dal semplice conflitto tra coetanei sono: 

  1. l’intenzione di causare danni; 
  2. episodi RIPETUTI di danno; 
  3. uno squilibrio di potere tra autore e vittima. 

Colpi, calci, spintoni, insulti, diffusione di voci, esclusione e gesti intimidatori ad opera di coetanei più forti, sono tutti esempi di molestie fisiche, verbali o di natura psicologica.

L'obiettivo di questo modello è quello di presentare la tipologia più tipica e diffusa di bullismo che influenza la vita di molti bambini ed è ormai etichettata come un problema di salute pubblica.

L’insorgenza del bullismo scolastico è associata ad una serie di difficoltà di adattamento.

Gli studenti che sono vittime di bullismo sono spesso gli stessi bambini che vengono rifiutati dai loro coetanei, che hanno bassa autostima, che sono depressi, ansiosi o solitari.

Parte di questo disagio psicologico dipende anche da come le vittime percepiscono e interpretano le cause e i motivi della loro situazione.
Ad esempio, ripetuti episodi di ostilità subiti o anche un singolo episodio isolato, ma particolarmente doloroso, potrebbero portare la vittima a chiedersi: "Perché io?"

In assenza di prove contrarie, la vittima può credere che la colpa della propria situazione dipenda dalle proprie mancanze. Quindi, spesso le vittime  pensano: "Io sono una persona che merita di essere presa di mira".

E' come se la vittima dicesse a se stesso: "Sono io il problema, le cose saranno sempre in questo modo, e non c'è nulla che io possa fare per cambiarle".

Questo senso di colpa può portare a molte conseguenze psicologiche negative perché le persone che fanno questa attribuzione tendono a sentirsi impotenti e al tempo stesso senza speranza.

Oltre alle ricadute psicologiche, alcuni bambini vittime di bullismo hanno anche diversi sintomi fisici reali che portano a volte all'assenteismo da scuola.
Non è difficile immaginare una vittima di bullismo cronico che diventa così ansiosa di andare a scuola da cercare di evitarla a tutti i costi. Le vittime di bullismo possono anche sviluppare atteggiamenti negativi verso la scuola, che poi si traducono in uno scarso rendimento.

I problemi scolastici legati al bullismo iniziano già durante la scuola materna e si estendono negli anni dell'adolescenza.

Tuttavia, è importante per gli insegnanti sapere cosa fare e cosa non fare quando si entra in contatto con situazioni di bullismo.

Cosa fare:

1.       Reagire a qualsiasi incidente di bullismo di cui si è testimone. La maggior parte degli episodi di bullismo avviene in "spazi non controllati" come ad esempio corridoi, parchi giochi e servizi igienici in cui la supervisione di un adulto è minima. E' importante per gli insegnanti essere più visibili in questi luoghi, per rispondere a tutti gli incidenti di bullismo di cui sono testimoni. Una risposta da parte di un insegnante comunica ai bulli che le loro azioni non sono accettabili e aiuta le vittime a sentirsi meno impotenti e più sicure.

2.       Gli insegnanti dovrebbero anche tenere d'occhio gli studenti fisicamente più piccoli rispetto ai coetanei, che si comportano o hanno un aspetto diverso dagli altri, dal momento che queste variabili sono spesso fattori di rischio per il bullismo. 

3.       Gli episodi di bullismo a cui si è stati testimoni possono essere utilizzati come "momenti di insegnamento", cioè situazioni che aprono la porta per conversazioni con gli studenti su argomenti difficili, come ad esempio il motivo per cui molti giovani giocano un ruolo neutrale e non sono disposti a venire in aiuto delle vittime, oppure perché i bulli sono a volte più popolari tra i loro coetanei. 

La maggior parte degli insegnanti non hanno la formazione adatta per affrontare questi temi particolari, quindi, dovrebbero richiedere assistenza professionale quando è necessaria al preside, da un consulente scolastico o lo psicologo della scuola. 

Cosa non fare:

1.       Mai ignorare uno studente che riferisce di essere vittima di coetanei.Le vittime di bullismo tra pari sono spesso riluttanti a dire ai loro insegnanti le loro esperienze perché temono ritorsioni, oppure credono che i loro insegnanti non si preoccupino o non sono disposti a venire in loro aiuto. Purtroppo  tante vittime di bullismo a scuola "soffrono in silenzio", ed è importante che gli insegnanti si interessino ad ogni incidente di bullismo. 

2.       E’ importante non adottare un’unica strategia per intervenire sul bullismo scolastico poiché esso può assumere molte forme: psicologico, fisico, può essere temporaneo o cronico. I bulli e le loro vittime sono sfide diverse e gli insegnanti hanno bisogno di adattare il loro intervento alle esigenze specifiche di ciascuno di loro. 

3.       Inoltre è importante non lasciare tutto il gruppo dei pari fuori dalla situazione; il bullismo coinvolge tutti, non solo i carnefici e le vittime. Molti studenti sono spesso testimoni di episodi di bullismo, ma assumere ruoli di indifferenza o di rinforzo incoraggiano i bulli. Gli studenti devono imparare che non esistono gli spettatori innocenti, ma tale comportamento di gruppo può indirettamente favorire i bulli. 

Ci sono molte strategie di intervento per combattere e affrontare il bullismo nelle scuole; alcuni interventi sono disponibili in forma di programmi scolastici interi, altri si concentrano sui curricula d’aula, e altri ancora si rivolgono agli individui a rischio (tipicamente bulli).

Alcuni programmi si concentrano sulla costruzione di abilità (ad esempio, rafforzamento delle competenze pro-sociali, le strategie di mediazione del conflitto), mentre altri si basano sulla punizione di comportamenti indesideratiad esempio, le politiche di tolleranza zero.

Tuttavia, va precisato che non bisogna fare troppo affidamento su un approccio di tolleranza zero, come potrebbe essere la sospensione o l'espulsione dei bulli dalla scuola; queste soluzioni a volte sono preferite perché presumibilmente inviano un messaggio al corpo studentesco che il bullismo non sarà tollerato.

Tuttavia, la ricerca suggerisce che queste politiche non sempre funzionano come previsto e possono a volte rivelarsi controproducenti.

I dati sull’ efficacia dei programmi sono limitati in questo momento; soprattutto limitati sono gli studi di valutazione che mettono a confronto i diversi approcci.

Dando uno sguardo al panorama italiano, troviamo che il 35% dei ragazzi è stato vittima di bullismo, di cui uno su 3 a scuola.

Purtroppo il fenomeno è in crescita: in base ai dati raccolti dal Centro nazionale di ascolto di Telefono Azzurro, nel biennio 2013-2014, su 3.333 consulenze, 485 ragazzi (il 14,6% del totale), ha affermato di essere stato vittima di bullismo o cyberbullismo.

Le segnalazioni arrivano soprattutto da Lombardia (12,4%), Veneto (10,2%) e Lazio (7,2%).
I bambini e gli adolescenti coinvolti sono principalmente femmine (nel 56,3% dei casi), tra gli 11 e i 14 anni (nel 40,6% dei casi).
Infine, il 10,2% dei bambini e adolescenti coinvolti è di nazionalità straniera.

Fonte: www.apa.org

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Burn-Out in sanità: sindrome da stress o malattia professionale?
dal concetto di burn-out alla diagnosi, dalla prevenzione al trattamento

Il termine burn-out che in italiano può essere tradotto come “bruciato”, “scoppiato”, “esaurito”, ha fatto la sua prima apparizione nel gergo del mondo dello sport nel 1930 per indicare l’incapacità di un atleta, dopo alcuni successi, ad ottenere ulteriori risultati e/o mantenere quelli acquisiti.Lo stesso termine è stato riproposto in ambito socio-sanitario per la prima volta nel 1975 dalla psichiatra americana C. Maslach la quale, nel corso di un convegno, utilizzò questo termine per definire una sindrome i cui sintomi testimoniano l’evenienza di una patologia comportamentale a carico di tutte le professioni ad elevata implicazione relazionale. Alcuni Autori identificano il burn-out con lo stress lavorativo specifico delle helping professions , le professioni dell’aiuto che comprendono figure come medici, psicologi, infermieri, insegnanti, assistenti sociali ecc… La definizione che la Maslach fornisce del burn-out è di “sindrome caratterizzata da esaurimento emozionale, depersonalizzazione e riduzione delle capacità personali”. Le cause del fenomeno più frequenti sono: il lavoro in strutture mal gestite, la scarsa o inadeguata retribuzione, l’organizzazione del lavoro disfunzionale o patologica, lo svolgimento di mansioni frustranti o inadeguate alle proprie aspettative oltre all’insufficiente autonomia decisionale e a sovraccarichi di lavoro. La sindrome si caratterizza per una condizione di nervosismo, irrequietezza, apatia, indifferenza, cinismo, ostilità degli operatori sociosanitari, sia fra loro sia verso terzi, che però si distingue dallo stress, eventuale concausa del burn-out così come si distingue dalle varie forme di nevrosi, in quanto non disturbo della personalità ma del ruolo lavorativo. Queste manifestazioni psicologiche e comportamentali possono essere raggruppate, come dalla precedente definizione della Maslach, in tre categorie di disturbi: l’esaurimento emotivo, la depersonalizzazione e la ridotta realizzazione personale.
▪ L’esaurimento emotivo consiste nel sentimento di essere emotivamente svuotato e annullato dal proprio lavoro, per effetto di un inaridimento emotivo nel rapporto con gli altri.
▪ La depersonalizzazione si manifesta come un atteggiamento di allontanamento e di rifiuto (risposte comportamentali negative e sgarbate) nei confronti di coloro che richiedono o ricevono la prestazione professionale, il servizio o la cura.
▪ La ridotta realizzazione personale riguarda la percezione della propria inadeguatezza al lavoro, la caduta dell’autostima e la sensazione di insuccesso nel proprio lavoro.
Il soggetto colpito da burn-out manifesta sintomi aspecifici (irrequietezza, senso di stanchezza ed esaurimento, apatia, nervosismo, insonnia), sintomi somatici con insorgenza di vere e proprie patologie (ulcere, cefalee, aumento o diminuzione ponderale, disturbi cardiovascolari, difficoltà sessuali ecc.), sintomi psicologici (depressione, bassa stima di sé, senso di colpa, sensazione di fallimento, rabbia, risentimento, irritabilità, aggressività, alta resistenza ad andare al lavoro ogni giorno, indifferenza, negativismo, isolamento, sensazione di immobilismo, sospetto e paranoia, rigidità di pensiero e resistenza al cambiamento, difficoltà nelle relazioni con gli utenti, cinismo, atteggiamento colpevolizzante nei confronti degli utenti e critico nei confronti dei colleghi). Tale situazione di disagio molto spesso induce il soggetto ad abuso di alcool, di psicofarmaci o fumo. Dal punto di vista clinico e psicopatologico la sindrome del burn-out va differenziata dalla già nota sindrome da disadattamento: sociale, lavorativo, familiare, relazionale. La sua originalità è rappresentata dal fatto che essa si verifica all’interno del mondo emozionale della persona ed è spesso scatenata da una vicenda esterna. La sindrome del burn-out potrebbe essere paragonata ad una sorta di virus dell’anima, perché sottile, invisibile, penetrante, continua, ingravescente. Se non si interviene determina l’exitus volitivo ed energetico, non solo lavorativo, della persona.
L’insorgenza della sindrome negli operatori sanitari segue generalmente quattro fasi:
▪ la prima fase (entusiasmo idealistico) è caratterizzata dalle motivazioni che hanno indotto gli operatori a scegliere un lavoro di tipo assistenziale, ovvero motivazioni consapevoli (migliorare il mondo e se stessi, sicurezza di impiego, svolgere un lavoro meno manuale e di maggior prestigio) e motivazioni inconsce (desiderio di approfondire la conoscenza di sé e di esercitare una forma di potere o di controllo sugli altri); tali motivazioni sono spesso accompagnate da aspettative di “onnipotenza”, di soluzioni semplici, di successo generalizzato e immediato, di apprezzamento, di miglioramento del proprio status e altre ancora. C’è in tutto questo quasi una difficoltà a leggere in modo adeguato il dato di “realtà”: infatti, esiste una logica secondo la quale il venire a capo di una situazione difficile non dipende dalla natura della situazione, ma essenzialmente dalle proprie capacità e dai propri sforzi; se dunque il problema non viene risolto, ciò sta a significare che non si è stati all’altezza…
▪ Nella seconda fase (stagnazione) l’operatore continua a lavorare ma si accorge che il lavoro non soddisfa del tutto i suoi bisogni. I risultati del forte impegno iniziale sono via via sempre più inconsistenti. Si passa così da un superinvestimento iniziale a un graduale disimpegno dove il sentimento di profonda delusione avanza determinando nell’operatore una chiusura verso l’ambiente di lavoro ed i colleghi.
▪ La fase più critica del burn-out è la terza (frustrazione). Il pensiero dominante dell’operatore è di non essere più in grado di aiutare nessuno, con profonda sensazione di inutilità e di non rispondenza del servizio ai reali bisogni dell’utenza. Il vissuto dell’operatore è un vissuto di perdita, di svuotamento, di crisi di emozioni creative e di valori considerati fondamentali fino a quel momento. Come fattori di frustrazione aggiuntivi intervengono lo scarso apprezzamento sia da parte dei superiori sia da parte degli utenti, nonché la convinzione di una inadeguata formazione per il tipo di lavoro svolto. Il soggetto frustrato può assumere atteggiamenti aggressivi (verso se stesso o verso gli altri) e spesso mette in atto comportamenti di fuga (quali allontanamenti ingiustificati dal reparto, pause prolungate, frequenti assenze per malattia).
▪ Il graduale disimpegno emozionale conseguente alla frustrazione, con passaggio dalla empatia all’apatia, costituisce la quarta fase, durante la quale spesso si assiste a una vera e propria morte professionale.
Questo progressivo susseguirsi di fasi da un livello molto alto di motivazione ed aspettative ad un livello di demotivazione e di vissuti di profonda infelicità e frustrazione, è riconducibile ad una visione del lavoro sociale fortemente influenzata da una ideologia di tipo assistenziale, per la quale medici, psicologi, infermieri, assistenti sociali, educatori, ecc. sono ancora considerati come professionisti di un tipo di lavoro inadeguatamente retribuito e di beneficenza. I servizi sanitari, sociali e culturali sono considerati una prova della munificenza statale. L’utente non è un cliente, ma un postulante cui viene fatta l’elemosina di una prestazione d’aiuto (G. Contessa, 1995). Questa ideologia, ancora molto diffusa in Italia, ha condotto gli operatori del sociale a sviluppare un forte spirito salvifico e sentimenti di onnipotenza nei riguardi degli utenti che non hanno poteri e sono identificati come “rappresentanti della malattia”, coloro che devono chiedere aiuto perché si trovano in uno stato d’inferiorità. Ma l’incontro con i bisogni dell’utenza porta l’operatore del sociale a dimenticare, o meglio a trascurare inconsapevolmente i propri bisogni profondi e le proprie motivazioni. Questo atteggiamento, come abbiamo visto nelle quattro fasi precedentemente descritte, si trasforma gradualmente in un senso di impotenza, di disagio, che rende l’operatore, precedentemente immerso in una immagine di salute, bontà e potere, vittima del dolore, del disagio e del bisogno espressi dall’utente. L’impossibilità di aiutare facilita quindi l’insorgenza del dubbio circa le proprie capacità e l’operatore, che era partito da una fortissima idealizzazione della professione, sperimenta la frustrazione prima e il burn-out poi. Nella concretezza quotidiana le capacità personali giocano un ruolo importantissimo almeno quanto le capacità tecnico-professionali. Per capacità o abilità personali in psicologia s’intendono l’empatia, la capacità di adattamento alle diverse situazioni, l’autocontrollo, l’iniziativa e la fiducia in se stessi, la competenza nella gestione del lavoro e la capacità nel costruire relazioni in modo creativo ed efficiente. Ciò che D. Goleman definisce “intelligenza emotiva” è appunto la capacità delle persone di affrontare in modo efficace ed ottimale le difficoltà della vita. La possibilità di contattare intimamente le proprie emozioni è data proprio da questa intelligenza emotiva e consente all’individuo di sviluppare la propria personalità in modo flessibile e creativo. Tutto ciò, proiettato all’interno della relazione medico-paziente consentirebbe al primo di essere empatico e sensibile alle reali esigenze del secondo. Nel burn-out esiste la difficoltà di misurarsi con le proprie emozioni e quindi il non riconoscimento del problema con conseguente sentimento di rassegnazione rispetto alla vita. E’ questo un modo o meglio un tipo di difesa che consente di attenuare la sofferenza: spesso si sente dire dagli operatori in burn-out “così è la vita”, uno slogan questo che insinua, a lungo andare, in queste persone l’idea che il modo in cui vanno le cose in questo tipo di lavoro è il modo in cui vanno le cose in tutti i lavori! Non c’è soluzione! Occorre provare ad ascoltarsi, a guardarsi dentro, a recuperare dentro di sé la propria motivazione e la propria capacità di alimentare desideri. Di fronte alle macerie dei propri ideali è quasi “normale” sentire il peso del fallimento delle proprie prospettive di autorealizzazione. C’è da dire inoltre che il burn-out non è affatto un problema personale che riguarda solo chi ne è affetto, ma è una “malattia” contagiosa che si propaga in maniera altalenante dall’utenza all’équipe, da un membro dell’équipe all’altro e dall’équipe agli utenti e riguarda quindi l’intera organizzazione dei servizi, degli utenti della comunità oltre che il singolo individuo.
Le conseguenze di tutto ciò sono, come precedentemente detto, molto gravi e si possono schematizzare in tre livelli:
▪ il livello degli operatori che pagano il burn-out in termini personali, anche attraverso gravi somatizzazioni, ma soprattutto attraverso dispersione di risorse, frustrazioni e sottoutilizzazioni di potenziali;
▪ il livello degli utenti, per i quali un contatto con gli operatori sociali in burn-out risulta frustrante, inefficace e dannoso;
▪ il livello della comunità in generale che vede svanire forti investimenti nei servizi sociali.
Abbiamo quindi visto quali sono i fattori che determinano e nel tempo alimentano la sindrome del burn-out e abbiamo visto anche quali modelli di difesa vengono messi in atto da chi è vittima di questa sindrome. Le difese intrapsichiche di evitamento, fuga, negazione e proiezione persecutoria sono meccanismi che non fanno che alimentare uno stato di disagio, di perdita di ideali e di “impotenza appresa” (secondo Seligman una situazione in cui i risultati avvengono indipendentemente da ogni risposta volontaria dell’individuo o del gruppo) e che possono essere indicatori di inadeguatezze organizzative e di realtà socio-lavorative carenti dal punto di vista della gestione delle risorse. La prevenzione o il superamento di una situazione di burn-out non può prescindere da un reale cambiamento delle condizioni in cui lavora l’operatore. L’organizzazione del lavoro d’aiuto deve pertanto prevedere innanzitutto la creazione di un clima lavorativo (cioè lo stato d’animo del sistema) positivo attraverso l’analisi e il confronto delle motivazioni e delle prestazioni dell’équipe lavorativa contemporaneamente ad un attento esame che tenga presenti realtà quali la legislazione, i cambiamenti culturali e strutturali organizzativi dei servizi, le gerarchie e i relativi ruoli, i poteri e le responsabilità, le competenze e la formazione professionale. Garantire un clima che sia gratificante per l’operatore significa gestire il suo carico emotivo personale a favore della promozione del benessere psicofisico e prevenire problematiche relative a stress lavorativo. Occorre quindi richiamare l’attenzione sull’importanza fondamentale della prevenzione e della terapia di una sindrome come quella del burn-out, che rappresenta senz’altro la patologia di un’organizzazione lavorativa (la cosiddetta “organizzazione disorganizzata”), con conseguenti ripercussioni negative sia sulla salute dell’ operatore sia sulla qualità dei servizi forniti alla collettività degli utenti. A qualsiasi livello agisca l’operatore delle helping professions esistono strategie di intervento (identificate da Cherniss) per prevenire il burn-out. Esse sono indicate nella tabella seguente e possono rappresentare un utile contributo per la pianificazione di un programma mirato alla risoluzione di questo problema.
Strategie per la Prevenzione del Burn-Out
Sviluppo dello Staff
▪ Ridurre le richieste imposte agli operatori da loro stessi attraverso l’incoraggiamento ad adottare obiettivi più realistici.
▪ Incoraggiare gli operatori ad adottare nuovi obiettivi che possano fornire alternative di gratificazione.
▪ Aiutare gli operatori a sviluppare ed utilizzare meccanismi di controllo e di feed-back sensibili a vantaggi a breve termine.
▪ Fornire frequenti possibilità di training per incrementare l’efficienza del ruolo.
▪ Insegnare allo staff a difendersi mediante strategie quali lo studio del tempo e le tecniche di strutturazione del tempo.
▪ Orientare il nuovo staff fornendo un libretto che descriva realisticamente le frustrazioni e difficoltà tipiche che insorgono sul lavoro.
▪ Fornire periodici “controlli del burn-out” a tutto lo staff.
▪ Fornire consulenza centrata sul lavoro o incontri per lo staff che sta sperimentando elevati livelli di stress nel proprio lavoro.
▪ Incoraggiare lo sviluppo di gruppi di sostegno e/o sistemi di scambio di risorse.
Cambiamenti di Lavoro e delle Strutture di Ruolo
▪ Limitare il numero di pazienti di cui lo staff è responsabile in un determinato periodo.
▪ Distribuire tra i membri dello staff i compiti più difficili e meno gratificanti ed esigere dallo staff che lavori in più di un ruolo e programma.
▪ Pianificare ogni giorno in modo che le attività gratificanti e quelle non gratificanti siano alternate.
▪ Strutturare i ruoli in modo da permettere agli operatori di prendersi “periodi di riposo” quando è necessario.
▪ Utilizzare personale ausiliario (e volontari) per fornire allo staff ordinario possibilità di riposo.
▪ Incoraggiare gli operatori a prendersi frequenti vacanze, anche con un breve preavviso se necessario.
▪ Limitare il numero di ore di lavoro di ogni membro dello staff.
▪ Non incoraggiare il lavoro part-time.
▪ Dare ad ogni membro dello staff la possibilità di creare nuovi programmi.
▪ Costituire varie fasi di carriera per tutto lo staff.
Sviluppo della Gestione
▪ Creare programmi di training e sviluppo per il personale attuale e futuro che si dedica alla supervisione, accentuando quegli aspetti del ruolo che gli amministratori hanno già difficoltà ad affrontare.
▪ Creare sistemi di controllo per i supervisori, quali indagini tra lo staff, e fornire al personale della supervisione un feed-back regolare sulle loro prestazioni.
▪ Controllare la tensione di ruolo nei supervisori e intervenire quando essa diventa eccessiva.
Soluzione del Problema Organizzativo e Momento Decisionale
▪ Creare meccanismi formali di gruppo per la soluzione del problema organizzativo e la risoluzione del conflitto.
▪ Organizzare training per la risoluzione del conflitto e la soluzione dei problemi di gruppo per tutto lo staff.
▪ Accentuare l’autonomia dello staff e la partecipazione alle decisioni.
Obiettivi del Centro e Modelli di Gestione
▪ Rendere gli obiettivi chiari e compatibili per quanto possibile.
▪ Sviluppare un forte ed originale modello di gestione.
▪ Rendere la formazione e la ricerca i maggiori obiettivi del programma.
▪ Condividere la responsabilità delle cure e della terapia con i pazienti, le loro famiglie e la comunità sociale.

Dott.ssa Francesca Lamanna
Lamanna, F. (2003) Il burn-out in sanità: sindrome da stress o malattia professionale?
SRM Psicologia Rivista (www.psyreview.org). Roma, 11 settembre 2003.

Riferimenti Bibliografici
AA.VV. (1987) L’operatore cortocircuitato. Clup, Milano.
Cherniss, C. (1983) La sindrome del burn-out. Centro Scientifico Editore, Torino.
Contessa, G.(1982) L’operatore sociale in cortocircuito; la burning-out sindrome inItalia. Animazione sociale, n.4243.
Contessa, G. (1982) Prigioni, monasteri, fabbriche. Clup, Milano.
Contessa, G. (1995) La sindrome del burn-out. Il vaso di Pandora / Dialoghi in psichiatria e scienze umane, Suppl. Vol. III, n.3.
D’Amato, A.,Marcato, A., Majer, V. (2003) Dall’amministrazione alla gestione delle risorse umane. Risorse Umane in Azienda, XIV, 92.
Di Martino, V.(1994) Stress lavorativo: un approccio per la prevenzione. Organizzazione internazionale del lavoro – Stress at work “la ricerca comparativa internazionale”. Ed. Italiana a cura di La Rosa M., Bonzagni M., Grazioli P., Edizioni Franco Angeli, Milano.
Goleman, D. (2000) Lavorare con intelligenza emotiva. BUR, Milano.
Magnavita, N. (1990) Vivere in ufficio. Manuale per la prevenzione dei rischi nel lavoro d’ufficio. Edizioni Lavoro, Roma
Maslach, C., Le iter, P. (2000) Burnout e organizzazione. Modificare i fattori strutturali della demotivazione al lavoro. Feltrinelli.
Pellegrino, F. (2000) La sindrome del Burn-out. Centro scientifico Editore, Torino.
Rijk, A., Le Blanc, P., Schaufeli, W. (1998) Active coping need for control as moderators of the job demand-control model: effect of burnout. Journal of Occupational Psychology, 71: 1-18.
Rossati, A. (1985) Burn-out: l’esaurimento da stress degli operatori dei servizi sanitari. Psicologia italiana notizie, n.2-3.
Santinello, M. (1990) La sindrome del burn-out. Erip, Pordenone.
Strologo, E. (a cura di) (1993) Burn-out e operatori prendersi cura di chi cura (Atti del Convegno). Ferrari Editrice, Clusone.
Zaina, P. (1998) La rete piemontese degli ospedali per la promozione della salute. Atti della conferenza degli Ospedali per la promozione della salute, del 27/3/1998.

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Disturbi dell'alimentazione e mass-media
il ruolo dei mass-media nello sviluppo dei disturbi del comportamento alimentare

L'emittente americana BBC, ha riportato nel maggio 1999 i risultati di un'indagine svolta da Anna Becker (un'antropologa dell'Harvard Medical School) sul cambiamento di attitudini verso il cibo e l'ideale corporeo degli adolescenti delle isole Fiji' (Figi) negli ultimi dieci anni. Il dato rilevante che è emerso, è che nel piccolo arcipelago limitrofo alla Nuova Zelanda, dove per tradizione si è sempre apprezzato un fisico massiccio e "rotondeggiante", si è verificato dopo l'arrivo della televisione nel 1995 un elevato incremento delle diete nonché di disturbi alimentari (sia anoressia che bulimia). Secondo i ricercatori dell'Harvard Medical School la comparsa di tali disturbi (e di comparsa è meglio parlare più che di incremento, giacché prima tali disturbi non esistevano) sarebbe legata alle immagini ed ai valori veicolati dai programmi televisivi occidentali, imperniati sull'ideale estetico della magrezza. La stazione televisiva impiantata solo nel1995 ha trasmesso da subito i programmi più seguiti negli USA e in Europa come Melrose Place, Xena, E.R., ecc... nei quali i protagonisti appaiono tutti magri e slanciati, mentre i personaggi obesi ricoprono ruoli negativi o marginali. Nel 1998 la Becker ha rilevato, dopo aver intervistato un campione considerevole di ragazze adolescenti, che il 74% di esse dichiarava di percepire il proprio corpo come"troppo robusto e grasso" e di voler dimagrire e che il 15% ricorreva a vomito autoindotto per controllare il peso. Per spiegare il forte impatto che secondo lei la TV ha avuto su questo popolo ai margini del mondo, l'antropologa ha paragonato la colonizzazione mediatica degli anni '90, con l'arrivo degli esploratori inglesi alla fine del secolo scorso, essi portarono con sé il morbillo ed altre malattie sconosciute agli indigeni, recando loro tanti danni, così la televisione oggi, con i suoi canoni estetici sta mietendo tante vittime in una popolazione prima immune da preoccupazioni di dieta. Questo studio seppur parziale e regionalistico, contiene alcuni elementi interessanti e viceversa statisticamente rilevanti e ampiamente generalizzabili. Non è la prima volta che mi imbatto in ricerche trans-culturali in rapporto alla relazione con il corpo e il cibo, e spesso mi trovo a constatare quanto i cambiamenti socio-culturali influiscano su di essa, soprattutto nei soggetti in cui l'integrazione con la realtà locale è difficile, e che presentano una struttura di personalità più fragile, con bassa autostima e anassertività. Accennerò adesso ad alcuni studi compiuti sull'argomento: disturbi alimentari in immigrati extracomunitari; si tenga presente che i paesi di origine dei soggetti in questione: Caraibi, Egitto, Cina, Bangladesh, hanno culture (similmente al caso delle isole Figi) che invece dell'ideale corporeo magro, promuovono una corporeità "abbondante" e robusta, espressione, in questi paesi poveri,di salute e opulenza, quindi a maggior ragione è interessante notare i cambiamenti circa l'immagine corporea all'arrivo nel contesto "occidentale". Gordon nel suo libro "Anoressia e Bulimia" cita uno studio del 1985 in cui per tre studentesse di origine afro-caraibica, l'impatto con la cultura europea e la conseguente assimilazione degli ideali e dei valori della cultura bianca, unita a difficoltà di integrazione avevano facilitato lo sviluppo della sintomatologia anoressica; sempre Gordon parla di una ricerca in cui un gruppo di studenti egiziani che si erano trasferiti a Londra per studiare, confrontato con i loro connazionali rimasti in Egitto, faceva registrare in un questionario valutante i disturbi alimentari, punteggi più alti su tutte le scale del questionario, oltre a presentare nel 10% dei casi sintomi evidenti di bulimia. Una ricerca apparsa sull'International Journal of Eating Disorders ad opera di C.D. Davis e M.A. Katzman ancora ci viene in aiuto. In tale ricerca infatti 197 studenti universitari cinesi negli USA sottoposti a questionari valutanti la presenza di disturbi alimentari, depressione, autostima e grado di acculturazione, riportavano rispettivamente, i maschi alti livelli di inefficacia percepita, perfezionismo, paura di crescere oltre che bizzarrie alimentari, le femmine invece di bulimia, spinta a dimagrire e paura della maturità; le autrici suggerivano che in soggetti con alto senso di inefficacia e problemi di integrazione etnica i disturbi alimentari fossero la conseguenza del tentativo di assimilarsi al modello di bellezza occidentale. Infine Andolfi in un suo caso clinico riporta la storia di Nita, una ragazza anoressica originaria del Bangladesh trapiantatasi con la famiglia a Toronto, e di come il sintomo manifestato dalla ragazza non fosse altro che l'agito dell'elemento più fragile ertosi a portavoce delle difficoltà di adattamento della famiglia in Canada. Tutte queste piccole testimonianze confortano la tesi dell'antropologa americana sulla potenziale patogenicità di certi messaggi culturali su personalità fragili, soprattutto in un'età come quella puberale (perché questa è la fascia d'età più colpita) che già di per sé determina tanti cambiamenti fisici e psichici nell'individuo e unite assieme assurgono a grande interesse sia nella teoria che nella clinica dei disturbi alimentari. Lasciatemi concludere con due parole chiave che mi sento di enucleare da questo discorso: stimoli socio-culturali e Immagine corporea, credo siano fortemente imbricati, dato che in personalità a rischio di disturbi alimentari, con problemi di differenziazione dagli oggetti-Sé genitoriali e latenza in una pre-genitalità a-simbolica l'adesione agli stimoli esterni (è una conseguenza del falso-Sé winnicottiano) è massima, si potrebbe dire: il loro mondo è il mondo degli altri.
Dott. Sergio Antonini
Antonini, S. (2000) Disturbi dell'alimentazione e mass-media SRM Psicologia Rivista (www.psyreview.org).
Roma, 13 novembre 2000.

Riferimenti Bibliografici
Davis, C., Katzman, M.A. Int. Jour. of E.D.; 25, May 1999. Gordon, R.A. (1991). Anoressia e Bulimia: anatomia di un'epidemia sociale. Raffaello Cortina Editore. Andolfi, M., Haber, R. (1994) La consulenza in terapia familiare. Raffaello Cortina Editore BBC online network, BBC news, 20 may 1999.

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Esperienza artistica e sindrome di Stendhal

La sindrome di Stendhal è una reazione psichica che si attiva durante l’esposizione ad opere d’arte di notevole magnificenza e si manifesta con sintomi di varia natura: essi possono investire l’area cognitiva (disturbi del pensiero, allucinazioni, vissuti persecutori), l’area somatica (tachicardia, vertigini, crisi di panico) e l’area affettiva (stati depressivi, sensi di colpa o al contrario euforia ed esaltazione).

La prima tipologia di segnali si riscontra maggiormente in persone con una storia passata di scompensi psicopatologici, mentre le altre tipologie possono colpire chiunque, generando un improvviso desiderio di tornare nella propria terra natia.  

Questa condizione prende il nome dallo scrittore francese Stendhal che, in seguito alla sua visita a Firenze presso la chiesa di Santa Croce, esperì sensazioni intense che descrisse nel suo libro “Roma, Napoli e Firenze”: 

«Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere.»

E’ stata la psichiatra italiana Graziella Magherini ad analizzare per la prima volta il disturbo nel 1977, partendo dalla sua esperienza lavorativa nell’ospedale di Firenze Santa Maria Nuova, in cui diversi pazienti si recavano in seguito ad inaspettati episodi di malessere psicologico.

Tutti i casi coinvolgevano viaggiatori perlopiù interessati all’aspetto artistico della città e il disagio aveva luogo durante la visione di opere d’arte particolarmente suggestive. 

Come già accennato, i sintomi riguardano un’area estesa che oscilla dal nevroticismo alla psicosi, pertanto non è possibile collocarli all’interno di una categoria diagnostica univoca; fortunatamente la sofferenza che provocano è momentanea e non lascia strascichi. 

Recentemente è stato scoperto che anche la musica può generare un impatto simile causando esternazioni come deliri o allucinazioni. 
Difatti non è un’ opera specifica ad indurre l’effetto Stendhal ma piuttosto alcune caratteristiche estetiche che, in concomitanza ad altri fattori tra cui la storia personale dell’osservatore, possono suscitare in lui impressioni molto forti. 

Questa situazione si verifica perlopiù durante un viaggio solitario, ovvero una situazione di esplorazione in cui l’identità umana assorbe nuove realtà che, se da una parte costituiscono un arricchimento, dall’altra possono rivelarsi destabilizzanti.

Ciò non significa che una persona non possa patire tale sindrome anche nel proprio ambiente d’origine, tuttavia le probabilità che questo accada diminuiscono poiché nel proprio contesto si possiedono maggiori capacità contenitive rispetto alle difficoltà evidenziate. 

Esistono malattie con effetti simili, come la sindrome di Parigi, che si scatena nella suddetta città, e la sindrome di Gerusalemme, in cui la sfera preponderante non è quella artistica bensì quella religiosa: gli individui vengono colti da improvvisi impeti di fede. 

Ma quali sono gli elementi in grado di evocare tali scompensi?
La prospettiva psicoanalitica riconosce nell’arte un tentativo, da parte dell’autore, di trasporre i propri conflitti inconsci e le fantasie represse, sublimandole nell’opera creata.

Le componenti angoscianti  restano così impresse nei dettagli del componimento e catturano l’attenzione dello spettatore, il quale ne recepisce la veemenza. In alcune persone tali particolari sono in grado di evocare  esperienze personali incisive, al punto di generare i sintomi descritti.

L’ipotesi neurobiologica avalla in parte questa teoria, attraverso il cosiddetto meccanismo della “simulazione incarnata”.

L’elaborato artistico attiva le aree cerebrali coinvolte negli stati emotivi (amigdala, striato ventrale, neuroni specchio, ecc.).
I neuroni specchio, che mediano la simulazione incarnata, inducono l’osservatore ad esperire le stesse emozioni espresse dall’autore durante l’esecuzione dell’opera.
Esse vengono  riconosciute in maniera inconsapevole e pre-riflessiva mediante le peculiarità del lavoro creativo.

La risposta sintomatica tipica della sindrome di Stendhal si svilupperà solo negli individui più vulnerabili, già predisposti a turbamenti psichici.    

Bibliografia                         
Graziella Magherini (2007) “Mi sono innamorato di una statua” Firenze, NICOMP L.E. 
Gallese V., Migone P., Eagle MN. (2006) “La simulazione incarnata: i neuroni specchio, le basi fisiologiche dell'intersoggettività ed alcune implicazioni per la psicoanalisi, Psicoterapia e Scienze Umane”

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Il disturbo da gioco d’azzardo

Nel DSM IV il gioco d’azzardo patologico veniva definito come un disturbo del controllo degli impulsi, consistente in un comportamento di gioco ricorrente, maladattivo che comprometteva le attività personali, familiari e lavorative dell’individuo.
Con il DSM V è stato fatto un importante passaggio.
Nel nuovo manuale diagnostico, infatti, il gioco d’azzardo patologico viene rinominato “disturbo da gioco d’azzardo” (Gambling Disorder), ed equiparato alle dipendenze da sostanza, come droghe e alcol.
Rispetto alla precedente classificazione i criteri diagnostici del DSM scendono da 10 a 9, viene infatti eliminato il criterio degli atti antisociali.
Cosa comporta questo passaggio?
Sicuramente la novità più importante è quella di considerare il gioco d’azzardo in maniera dimensionale, ovvero su un continuum lungo il quale la persona può spostarsi da un gioco problematico verso un gioco grave e invalidante.
Un grande problema che lo psicologo si trova ad affrontare davanti a un paziente che gioca d’azzardo è proprio capire l’entità e la qualità del problema riportato.
La letteratura è ricchissima di contributi che vanno nella direzione di dare una classificazione delle tipologie di giocatore, in base al loro comportamento di gioco e alle relative conseguenze.
Giocatore sociale, giocatore per fuga e giocatore dipendente sono solo alcune delle categorie proposte per cercare di dare una definizione di determinati comportamenti.
“Scrivere sul gioco d’azzardo è quasi altrettanto rischioso che scrivere sul sesso: entrambi gli argomenti raramente vengono trattati senza toni moraleggianti. […] sarebbe assurdo non accettare che il gioco, legale o meno, sarà sempre una parte integrante di tutte le culture e società“ (Dickerson, 1993)
La difficoltà sta proprio nel dover lavorare e analizzare un tipo di comportamento che riguarda un aspetto, quello del gioco, che fa parte della normale quotidianità delle persone, e che non sempre equivale ad un chiaro comportamento patologico.
In questo, la nuova concezione epistemologica del gioco d’azzardo ci viene in aiuto, indicandoci non tanto la strada della categorizzazione, piuttosto quella dell’esplorazione del comportamento della persona che soffre questo tipo di problema.
Possiamo dire, dunque, che il gioco d’azzardo, essendo equiparato agli altri disturbi da sostanze possiede inequivocabilmente tre fattori: tolleranza, dipendenza e craving.
L’esplorazione di questi elementi, può aiutare lo psicologo a capire, prendendo in considerazione il continuum problematicità-disturbo, dove si trova il paziente.

Bibliografia
Dickerson M.G. (1993), La dipendenza da gioco, Gruppo Abele, Torino (ed. or. 1984).
Sitografia
www.gamling.it Alea-Associazione per lo studio del gioco d’azzardo e dei comportamenti a rischio.
Autore Luca Notarianni

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La malattia del cibo salutare: l'Ortoressia

L’ Organizzazione Mondiale della Sanità lancia l’allarme. Ieri la battaglia era contro i latticini. Oggi per la carne. Domani sarà il momento delle verdure?
Certamente le notizie vanno date. Ma siamo sicuri di conoscere gli effetti che questa informazione ha sulle nostre menti?
Le notizie sul mondo del cibo ci dicono che dobbiamo scegliere alimenti che non contengano alcuni tipi di grassi, né coloranti; che assumere un eccesso di cibi con glutine ha generato un fiume di celiaci.
Che la quota di zuccheri nascosta nelle normali pietanze ci sta condannando ad una epidemia di diabete.

Ora le carni rosse (sapete che sono quelle dei mammiferi?), ieri il pollo avvelenatoda ormoni che hanno allevato popolazioni di prepuberi maschi con la ginecomastia (aumento di volume delle mammelle).
L’informazione ci colpisce e, se non rimbalza, ci obbliga a cambiare, a ristrutturare le nostre credenze.
Allora, improvvisiamo una soluzione per proteggerci dalla malattia: autodisciplina, autonegazione, autolimitazione. Nascono, in taluni casi teorie naif e in alcuni casi, conseguenze psichiche oggi classificate come “Malattia Mentale”.
Nel DSM-5, il manuale dei Disturbi Mentali pubblicato nel 2013, è stato introdotto un nuovo disturbo definito Ortoressia, con il quale si definiscono quelle persone che, in modo ossessivo, si preoccupano di fare delle scelte alimentari sane.
Ma qual è il limite?
Fino a che punto possiamo definire sana la scelta di evitare alcuni tipi di alimenti e quando invece quella stessa attenzione diventa un problema?
Come psicologi non possiamo trascurare il problema.
Il termine Ortoressia, deriva dal greco Orthos (giusto) e Orexis (appetito). Qui però non stiamo parlando di fame e sazietà. Non si tratta di definire le corrette quantità di cibo. L’argomento in esame riguarderebbe, invece, le scelte alimentari, le tipologie di cibi accettati e ammessi sulla nostra tavola.
Quindi, il termine rischia di distrarre dal punto centrale. In realtà si tratta di una sorta di ossessione, nella quale si determinano scelte alimentari rigide, come rigido è il giudizio che si esprime nei confronti di chi si comporta in modo diverso. Viene subito a mente l’ascetismo che appartiene alle dimensioni di gruppi religiosi che, come tutti gli estremismi, porta danni.
Circa 300 mila gli ortoressici in Italia, con una maggiore prevalenza tra gli uomini piuttosto che tra le donne (11.3% vs 3.9%).
Il problema è dunque quello di come fare prevenzione e come dare informazione. Dobbiamo fare prevenzione ma, in qualche caso, il salutismo estremo, può portare una persona a sviluppare un desiderio di salute costi quel che costi.

E così non solo per l’alimentazione, ma anche per il fitness, le radiazioni che provengono dal cellulare e per lo shampoo naturale.
Quella per il cibo è, però, la più forte, quella che si è lentamente radicata nella vita quotidiana. E così tra l’Expo, le trasmissioni televisive che esplorano gli effetti delle diete, l’attenzione al glutine, le coltivazioni bio, la giornata mondiale dell’alimentazione, sorge il ragionevole dubbio che l’ossessione per il cibo possa essere stata generata proprio dall’eccesso di informazione alla quale non seguono chiare e coerenti indicazioni comportamentali.

Il concetto di preservare la salute attraverso la dieta è corretto.
Quello che rischia di essere sbagliato è il modo in cui le informazioni vengono date: l’attenzione al cibo che si concentra sugli alimenti e non su come e perché noi mangiamo certe cose piuttosto che altre.

Il comportamento alimentare non è solo cibo o capacità di leggere le etichette nutrizionali.
L’estremismo del cibo si focalizza sugli aspetti dietetici, trascurando completamente gli altri aspetti come ad esempio le relazioni sociali, la convivialità, il piacere.

Come l’anoressia con il cibo o la mania chirurgica nell’estetica, tutto inizia in modo naturale, in sordina, in modo equilibrato e giusto. E' giusto prendersi cura di sé ed è corretto curare l’alimentazione al fine di prevenire le malattie croniche, perdere peso, migliorare lo stato generale della salute, o correggere le abitudini alimentari sbagliate.

Ma se vogliamo davvero fare prevenzione, dobbiamo capire il modo in cui farla. Dobbiamo porre dei limiti quando ci accorgiamo del rischio di esagerare. L’Ortoressia, oggi, è il campanello d’allarme e non possiamo essere sordi.

Dobbiamo fare attenzione e di rimando ricordarci che la legge tutto o nulla è solo nelle nostre menti. Niente in natura è tutto bianco o nero, niente è solo off or on.

Gli estremismi sono il risultato di opere umane e noi, come professionisti, dobbiamo evitare di incorrere nello stesso errore.

Autore: Paola Medde, Psicologa Psicoterapeuta
Docente del Master: "Il comportamento alimentare: strumenti e tecniche dello Psicologo".
Coordinatore del Gruppo di lavoro di “Psicologia e Alimentazione” dell'Ordine Psicologi Lazio.

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L'aggressività e il comportamento aggressivo nell'infanzia e nell'adolescenza
Autore: giulia rossi

Gli studi riportati in questo lavoro costituiscono una bibliografia ragionata sul tema dell’aggressività e del comportamento aggressivo nell’infanzia e nell’adolescenza. Lo scopo è dunque quello di analizzare il fenomeno dell’aggressività in tutta la sua complessità e nella molteplicità dei fattori che la costituiscono. L’argomento è molto complesso, quindi ci siamo soffermate solo su alcuni aspetti correlati a questo tema. In primo luogo è necessario sottolineare che con il termine aggressività si intende un modo di agire atto a danneggiare o ferire una persona e che dunque si concettualizza come una particolare forma di comportamento che ha origine e si sviluppa nel mondo sociale di appartenenza.
Alla luce di queste osservazioni la prima parte del lavoro è dedicata alla presentazione delle teorie che si sono interessate alle cause del comportamento aggressivo. Il secondo paragrafo invece, è dedicato agli studi che hanno tentato di spiegare il modo in cui il modello di attaccamento sviluppato nell’infanzia e gli stili educativi dei genitori influiscono sullo sviluppo di atteggiamenti prepotenti e violenti. Infine nell’ultima parte del nostro studio, viene studiata l’influenza di fattori, tipici della modernità, come i media e, una particolare forma di aggressività che prende il nome di bullismo.
L’AGGRESSIVITA’ NELLA STORIA A causa della natura pericolosa del comportamento aggressivo e della sua presenza nelle società umane, non sorprende il fatto che negli anni si sono susseguite moltissime teorie a riguardo. Fino al 1920, la psicoanalisi poneva alla base dei comportamenti aggressivi l’esistenza di forze psichiche caratterizzate da pulsioni aggressive. E’ solo con la pubblicazione del saggio “ Al di là del principio di piacere “ di Freud che è possibile indicare un punto di totale cambiamento. Freud infatti, pone in rilievo un altro aspetto, ovvero l’istinto di morte, Thanatos, condizione originaria che precede la vita e cui ogni individuo tende a ritornare, contrapposto all’Eros, cioè la ricerca del piacere e dell’appagamento. Un altro importantissimo contributo deriva poi dall’etologia, soprattutto con autori come Konrad Lorenz, secondo il quale l’aggressività ha una valenza adattiva per l’individuo e dunque questa deve essere considerata come un aspetto penetrante e inevitabile della natura umana. Gli studi poi non si sono soffermati solo sugli aspetti sociobiologici, ma anche sulla genetica del comportamento; centrale in questa corrente di pensiero è la convinzione che la tendenza verso il comportamento aggressivo sia codificata nel patrimonio genetico dell’individuo. In particolare, i genetisti del comportamento hanno cercato di dimostrare che gli individui imparentati geneticamente hanno tendenze aggressive più simili degli individui non imparentati geneticamente. Di Lalla e Gottesman (1991) , dall’esame di studi su persone adottate, hanno concluso che i fattori genetici hanno effettivamente un ruolo nella criminalità, unitamente a quelli ambientali. Le ricerche di neurofisiologia invece, sono arrivate alla conclusione che il cervello nella sua totalità partecipa al comportamento aggressivo. Tra le spiegazioni psicologiche, oltre alla psicoanalisi freudiana è possibile individuare l’ipotesi della frustrazione-aggressività. Alla base di questa idea vi è la convinzione che ci sia una forza all’interno dell’organismo, che collegata ad eventi esterni, conduca a comportamenti aggressivi. Dunque si postula l’esistenza di una spinta aggressiva come motivazione verso un comportamento aggressivo, che deriva in primo luogo dalla necessità di interrompere uno stato di frustrazione. (Dollard, 1939). Miller però (1941) sottolinea il fatto che tale condotta aggressiva non si presenta sempre in seguito ad una frustrazione ma egli affermò che la << frustrazione scatena una varietà di tipi di risposta, uno dei quali conduce a qualche forma di aggressività >> Nel tentativo di spiegare perché una frustrazione genera un comportamento aggressivo soltanto in alcune circostanze, Berkowitz (1967) suggerisce che questa provoca aggressività solo nella misura in cui suscita emozioni negative, e che oltre alla frustrazione vi sono anche altre stimolazioni negative, come la paura, il dolore fisico o il malessere psicologico, in grado di suscitare sentimenti aggressivi. (Berkowitz, 1997, 1998). La possibilità che un individuo reagisca ad uno stimolo avverso con una reazione aggressiva, dipende anche da come questo interpreta lo stimolo che riceve. Il lavoro sperimentali di Zillmann (1974) infatti suggerisce che l’intensità della rabbia sperimentata dipende da due componenti: la forza dell’attivazione fisiologica generata dall’evento avverso ed il modo in cui questa eccitazione viene elaborata, definita ed interpretata. L’approccio sociocognitivo approfondisce la prospettiva fino ad ora presentata, studiando le differenze nel comportamento aggressivo individuale, in funzione delle differenze nell’elaborazione delle informazioni sociali. In particolare tali studi si sono soffermati su due fattori: 1) l’utilizzo di schemi cognitivi che guidano l’azione, e 2) i modi caratteristici di elaborare le informazioni che distinguono gli individui aggressivi da quelli non aggressivi. Infatti è possibile affermare che proprio tali schemi costituiscano delle strutture di conoscenza che guidano il comportamento suggerendo il comportamento più adeguato ad una data situazione. Tali strutture vengono acquisite infatti attraverso l’esperienza, e ne consegue che il comportamento aggressivo è controllato da <<repertori di comportamento acquisiti durante i primi processi di socializzazione>>. (Huesmann, 1988; 1998). Innovazioni riguardo al concetto di aggressività si hanno negli anni ’60, grazie a numerosi esperimenti, primo fra tutti, quello condotto da Milgram, che coinvolgeva 40 soggetti tra i 20 e i 50 anni, che credendo di collaborare ad esperimenti sulla memoria e l'apprendimento, venivano indotti a somministrare scariche elettriche sempre maggiori ad altri soggetti che, d'accordo con gli sperimentatori, fingevano sofferenze proporzionate all'entità delle scariche.

Secondo Milgram (1963) il risultato più significativo è che solo il 35% dei soggetti ha, in qualche modo, disubbidito agli sperimentatori, mentre tutti gli altri hanno somministrato tutte le scariche, fino a quelle più intense (450 Volt). Questo risultato fu interpretato da Milgram stesso e da molti studiosi comportamentisti come la prova che l'autorità deresponsabilizzava i soggetti ed in tal modo venivano eliminati quei fattori di inibizione dell'aggressività che normalmente impediscono all'individuo di attuare comportamenti violenti nei confronti del prossimo. Scrive infatti Milgram. "Gente normale, che si occupa soltanto del suo lavoro e che non è motivato da nessuna particolare aggressività, può, da un momento all'altro, rendersi complice di un processo di distruzione [...] Abbiamo messo in luce qualcosa di ben più pericoloso: la capacità degli individui di rinunciare alla loro umanità, anzi la necessità di comportarsi in tal modo al momento in cui la loro personalità individuale viene incorporata in più vaste strutture istituzionali". Milgram conclude la sua analisi affermando che il comportamento aggressivo è determinato più da richieste e condizioni specifiche della situazione (in questo caso derivanti dall'autorità degli sperimentatori) che da tratti intrapsichici della personalità del soggetto. (1963, pp. 371-78). È possibile concludere affermando che la maggior parte degli studi ha cercato di mettere in evidenza il ruolo del condizionamento operante e dell’imitazione nell’apprendimento dei comportamenti aggressivi, e che il comportamento aggressivo non è inevitabile, ma che la probabilità che avvenga dipendono dalla concomitanza di una varietà di fattori incoraggianti e inibitori situati sia all’interno dell’individuo che nel contesto in cui vive.
Bibliografia Berkowitz, L., & LePage, A. (1967). Weapons as aggression-eliciting stimuli. Jornal of Abnormal and Scial Psycology, 7, 202-207. Berkowitz, L. (1962) -Aggression: a Social Psychological Analysis, McGraw Hill, New York. Bonino, S. & Saglione, G. (1980). Aggressività e stili educativi genitoriali. Psicologia Contemporanea, 41, 17-23. Dollard, J. -Frustration and Aggression, (1939). New Haven: Yale University Press. Freud, S. (1920). Al di là del principio di piacere. Torino: Boringhieri. Lorenz, K. (1963). Das sogenannte Bose: Zur naturgeschichte der Aggression. Wien: Verlag. Lorenz, K. (1963). Laggressività, Milano, Il Saggiatore, 2000. Milgram, S. (1974) Obedience to authority. New York: Harper & Row.

ATTACCAMENTO E STILI EDUCATIVI NELL’AGGRESSIVITA’
Oggi è ampiamente condiviso il fatto che il comportamento aggressivo sia in gran parte appreso; infatti, al di là del problema della sua origine, una grande rilevanza, nel processo di costruzione della competenza sociale dei bambini, viene attribuita al contesto familiare. All’interno di tale ambiente il bambino elabora e interpreta cognitivamente e affettivamente, i comportamenti osservati, sulla base dei suoi bisogni e dei valori di riferimento, questi infatti viene a contatto con modelli di comportamento espressi in famiglia, che diventano così, come degli schemi in grado di guidare il comportamento futuro. Silvia Bonino e Gianfranco Saglione (1980) hanno affermato che: “ la famiglia svolge un ruolo preminente nel promuovere o, al contrario nell’ostacolare, la strutturazione di un Io sicuro nel corso dell’età evolutiva” (p. 19). Basandoci su questo assunto siamo partiti dal presupposto che il comportamento è in gran parte appreso grazie alle interazioni precoci con l’ambiente. In particolare ci siamo soffermati sul fatto che, se questo è deprivante, frustrante e provocatorio, l’individuo verrà sottoposto ad una continua stimolazione all’aggressività. Stattin e Kerr (2000) sostengono inoltre, che il miglior deterrente per i comportamenti antisociali sia la reale conoscenza che i genitori hanno della attività dei figli e che questa sia il frutto di un positivo rapporto di fiducia, calore e sostegno reciproco. Per tutte queste ragioni, abbiamo condotto uno studio per verificare in che modo la relazione che intercorre tra, lo sviluppo di un attaccamento sicuro correlato ad uno stile genitoriale autorevole, costituisca un fattore preventivo nell’attività deviante dei giovani. L’idea è quindi che un clima familiare ricco di tensioni e conflittualità possa avere ripercussioni negative sul giovane, al punto da indurlo, molto spesso, a porre in essere condotte devianti. La teoria dell’attaccamento costituisce una cornice teorica e metodologica particolarmente utile per la comprensione dello sviluppo affettivo-relazionale del soggetto nel ciclo di vita. L’educazione autorevole invece, tiene conto dei bisogni del bambino a partire dal rispetto di valori stabili (Baumrind, 1966 ). Si tratta di uno stile educativo che tende a dare sicurezza al bambino e che non evita lo scontro con ostacoli, proibizioni e insuccessi. I dati attraverso i quali sono state compiute le opportune analisi, sono stati attinti dal questionario somministrato ad un campione di un totale di 570 soggetti; di questi, 190 di età compresa tra i 3 e gli 8 anni frequentanti dunque la scuola dell’infanzia, e il restante numero ( 380 ) costituito dalle rispettive coppie di genitori che hanno accettato di sottoporsi al questionario. Va precisato che si tratta di famiglie aventi una struttura familiare Unita. La prima fase del nostro studio è stata dedicata alla rilevazione degli stili di attaccamento attraverso l’uso dell’Attachment Story Completion Task (ASCT; Bretherton, Ridgeway e Cassidy, 1990), una procedura basata sulla presentazione tramite l’uso di personaggi-giocattolo di cinque storie che rappresentano altrettante situazioni familiari particolarmente rilevanti rispetto all’attaccamento. Ad ogni bambino dunque sono state presentate piccole figure familiari, come ad esempio una famiglia di orsetti rappresentante la madre o il padre, due fratelli o sorelle dello stesso sesso del soggetto, una nonna, il cane di famiglia e due amici. Dopo l'acting out ed il racconto da parte del bambino, come da protocollo, abbiamo invitato ciascun bimbo a mostrarci e dirci cosa avviene dopo. La procedura viene videoregistrata e codificata valutando gli elementi indicativi di sicurezza e insicurezza. Secondo i prototipi dei quattro modelli mentali dell’attaccamento, (vale a dire l'attaccamento " sicuro " ; l'attaccamento " ansioso-evitante " ; l'attaccamento " insicuro-ansioso-ambivalente " , l'attaccamento “disorientato-disorganizzato”) in relazione a varie dimensioni rilevanti osservabili nelle storie (espressione emotiva, relazioni con le figure di riferimento, visione del mondo da parte del protagonista, narrazione). Nella seconda fase invece, si è proceduto all’identificazione dello stile educativo nella famiglia mediante l’utilizzo di un questionario self-report, in cui i genitori rispondevano a domande inerenti la gestione delle situazioni familiari, il loro modo di assecondare o rifiutare le richieste dei figli e anche il modo in cui i due partner collaborano.Numerose altre ricerche poi, si sono interessate alle correlazioni esistenti fra comportamenti aggressivi e disposizioni alla violenza (Bandura, 1986; Berkowitz, 1984; Huessmann, 1982). Bandura, nella sua teoria dell’apprendimento sociale, pone in primo piano il ruolo degli stimoli ambientali nella messa in atto di un comportamento aggressivo. In particolare, riconosce la presenza di due fattori essenziali per comprendere l’insorgere dell’aggressività, ovvero, l’osservazione del comportamento aggressivo (modello), e il conseguente rinforzo attuato tramite il modello stesso. Attraverso questi due fattori, il bambino acquisisce programmi comportamentali, standard di autoregolazione interna, e tendenze all’attribuzione che supportano o inibiscono l’aggressione.
Bibliografia Aebi, M. (1997). Famille dissociée et criminalité: le cas Suisse, Kriminologisches- Bulletin de Criminologie, 23, 53. Bandura, A. (1986). Social foundation of thought and action: A social cognitive theory. Englewood Cliffs, NY: Prentice- Hall. Bonino, S. (1981). Educazione e Aggressività. Bologna, Cappelli. Bonino, S., & Saglione, G. (1980). Aggressività e stili educativi familiari. Psicologia contemporanea, 41, 17-23. Caprara, G.V. (1981). Personalità e Aggressività. Roma, Bulzoni. Caprara, G.V., Perugini, M., Barbaranelli, C. & Pastorelli, C. (1993). Fenomenologia aggressive e disposizione di personalità. Giornale di Psicologia, 20, 299-318. Difference, and Correlates of Risk for Behaviour Problems. International Journal of Behaviour Development, 17, 675-696.

MASS-MEDIA E BULLISMO
Un ‘altro aspetto fondamentale nello sviluppo dell’aggressività è da rintracciare nei segnali aggressivi che provengono dall’ambiente. A tal proposito, Berkowitz e LePage (1967) mostrano che soggetti, che avevano subito in precedenza una frustrazione e che per questo si trovavano in uno stato di eccitazione negativa, reagivano più facilmente in modo aggressivo. Il punto è individuare quali siano i segnali in grado di provocare tali reazioni.

Negli ultimi anni, si è sviluppata la tesi, secondo cui l’esposizione ai contenuti violenti dei media aumenta le tendenze aggressive dello spettatore, e che queste sono più gravi se, per esempio, si accompagnano a situazioni di violenza familiare nella vita reale. Tale ipotesi è stata confermata dagli esperimenti di Huesmann (1991) e quelli di Paajanen & Viemero (1992) che hanno selezionato un campione di bambini e mostrato loro due brevi film, di cui solo uno a contenuto violento, e inoltre, altri studi, confermano il fatto che l’impatto dei contenuti aggressivi nei media diminuisce con l’aumentare dell’età dello spettatore. Quando si parla dei media però, non si intende solo una forma di violenza cinematografica o televisiva, ma si intendono anche, tutti quei contenuti, che sono nati negli ultimi decenni, come i videogiochi per playstation, gameboy e computer, e che hanno modificato profondamente lo stile di consumo di bambini e adolescenti. Si stanno accumulando sempre più prove a sostegno del fatto che i videogiochi con contenuti violenti scatenano il comportamento aggressivo più o meno allo stesso modo della violenza televisiva. Anderson e Dill (2000) per esempio, hanno mostrato che i partecipanti che avevano giocato e perduto una partita ad un videogioco violento urlavano e imprecavano più a lungo verso i loro avversari, rispetto a chi invece, aveva giocato e perduto una partita ad un videogioco non violento. Numerose sono le spiegazioni date a tale relazione tra media e aggressività. Zillmann parla di <<transfer di eccitazione>>, che ritiene che l’eccitazione proveniente da una fonte neutra può aggiungersi ad un’attivazione nervosa causata da una provocazione e scambiata in modo errato per rabbia se l’individuo non è più consapevole della ragione originale della sua attivazione. Ancora si è ipotizzato che la visione di interazioni aggressive agevola l’accesso ai pensieri e ai sentimenti aggressivi dello spettatore, causando il cosiddetto effetto <<priming>>. Un’altra causa di tale relazione potrebbe essere data dal fatto che l’esposizione ai contenuti violenti può indebolire le inibizioni dello spettatore verso l’aggressività, rendendola un aspetto comune e accettabile delle interazioni sociali. Alla base di tutti i questi aspetti, si pone sempre la teoria dell’apprendimento sociale di Bandura (1973) , che enfatizza appunto, il ruolo degli stimoli ambientali nella messa in atto del comportamento aggressivo, e come, se questi fungono da rinforzo, si creano degli schemi mentali in grado di guidare il comportamento. Una particolare forma di aggressività tra coetanei è rappresentata dal bullismo. Il termine bullismo si riferisce alla definizione elaborata da Olweus: ” uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, ad azioni offensive messe in atto da uno o più coetanei ” (Olweus, 1986, 1991). Il bullismo è stato descritto come un’aggressione di tipo proattivo che consiste nel provocare intenzionalmente un danno ad altri, attraverso modalità dirette, attacco verbale o fisico nei confronti della vittima, e modalità indirette, caratterizzate da una forma di isolamento sociale e da una intenzionale esclusione dal gruppo (Olweus, 1973). Tale fenomeno risulta caratterizzato da: intenzionalità- persistenza nel tempo- asimmetria; contrariamente ad altre azioni aggressive che si attuano con un solo attacco o con vari attacchi a breve termine, il bullismo, infatti, si manifesta per lunghi periodi di tempo e implica uno sbilanciamento di forze e di potere che lascia la vittima incapace di difendersi in modo efficace. E’ importante determinare le differenze tra i bambini che sono oggetto di bullismo e quelli che diventano bulli. L’età e il genere sono stati considerati, in particolare, i moderatori potenziali di questo fenomeno; il primo fattore sembra influire sulla scelta delle strategie per mettere in atto questo comportamento: i bambini più piccoli compiono soprattutto atti di aggressione fisica, mentre nei ragazzi più grandi il fenomeno si manifesta attraverso una forma verbale e indiretta di aggressività. Per quanto riguarda le differenze di genere, invece, le prove disponibili mostrano che i maschi figurano più delle femmine sia come vittime che come colpevoli e che mostrano un a maggiore aggressività fisica delle ragazze, che invece optano per una forma verbale e relazionale (Crik & Bigbee, 1998; Smith, 1999). Oltre all’età e al genere molti studi hanno fornito una chiara evidenza delle caratteristiche tipiche del bullo e delle loro vittime, che confermano le convinzioni di senso comune (Bernstein & Watson, 1997). La tipica vittima è un soggetto ansioso, sensibile, calmo , insicuro, che se attaccato reagisce chiudendosi e con una bassa autostima. Solitamente questa vive a scuola una condizione di isolamento e solitudine rispetto al gruppo di coetanei. Tale descrizione rientra nel modello di “ Vittima passiva/sottomessa “. Un secondo modello, è rappresentato invece dalla “ Vittima provocatrice ”, ovvero da un soggetto che oltre a provocare gli attacchi degli altri e adattarsi alle violenze, vede in queste delle possibili fonti di soddisfazione, in quanto le vive come un momento in cui si trova al centro dell’attenzione. Tale vittima è generalmente un maschio irrequieto, iperattivo, impulsivo, talvolta è goffo e immaturo, spesso con problemi di concentrazione. I bulli, al contrario, sono soggetti forti, determinati, si arrabbiano facilmente, e presentano un basso livello di tolleranza alla frustrazione; sono dominati inoltre da un’aggressività rivolta non soltanto verso i coetanei, ma anche verso genitori, insegnanti e adulti. Studi hanno dimostrato che più dell’ 80 % degli episodi di bullismo avviene in classe, nei corridoi o in cortile e dunque in situazioni di gruppo (Pepler & Craig, 1995; Salmivalli, 1996). Oltre alla vittima, al bullo e i suoi compagni, troviamo un terzo protagonista: lo spettatore silenzioso. Spesso infatti i ragazzi che assistono agli episodi di bullismo preferiscono tacere o far finta di non aver visto. Le ragioni di questo comportamento sono facilmente intuibili infatti questi non si intromettono perché hanno paura di ritorsioni o temono di diventare loro le vittime. Tutte queste scoperte suggeriscono che tale fenomeno faccia parte di un modello più generale di comportamento antisociale, associato all’aumento della probabilità di comportamento deviante in adolescenza e nell’età adulta. A tal proposito Olweus (1991, 425) dichiara: “ I giovani che mostrano un comportamento aggressivo e fanno i bulli con gli altri a scuola corrono un serio rischio di avere dei problemi di comportamento negli anni successivi, sia commettendo dei reati, sia facendo abuso di alcol “. Tutto ciò si ricollega alla prima parte di questa ricerca; è stato messo in evidenza infatti, come un rapporto tra genitori e figli caratterizzato dal distacco, genitori troppo tolleranti verso il comportamento aggressivo dei figli, e l’uso di pratiche educative aggressive sono tutti fattori che rivestono un ruolo determinante nell’attuazione di questo schema di comportamento antisociale (Bowers, Smith & Binney, 1994). Un’ ulteriore conferma di ciò è data dallo studio di Gini, Albiero e Benelli (2005), che hanno individuo una relazione negativa tra la manifestazione di comportamenti di prepotenza, livelli di responsività empatica dei ragazzi, e di autoefficacia percepita sia rispetto al successo scolastico sia rispetto alle relazioni con gli altri. Ciò che sembra essere correlato con il manifestarsi di comportamenti prepotenti è il clima familiare e in particolare, gli stili educativi messi in atto dai genitori.
Per arginare tale fenomeno, un primo passo dovrebbe consistere nel mettere a punto un progetto antibullismo che riguardi il sistema-scuola (luogo dove tale fenomeno tende a manifestarsi), nella sua totalità, riuscendo ad individuare TEMPESTIVAMENTE i possibili episodi di violenza, coinvolgendo genitori, insegnanti, personale non docente e tutti gli alunni, poiché è solo agendo sull’intero sistema che è possibile ottenere un cambiamento stabile e duraturo.
Bibliografia Anderson, C.A., & Dill, K.E. (2000). Video Games and Aggressive Thoughts, Feelings, and Behavior in the Laboratory and in Life. Bandura, A. (1973). Aggression: a social learning analysis. Englewood Cliffs, NY: Prentice- Hall. Crick, N. R., & Bigbee, M. A. (1998). Relational and overt forms of peer victimization: A multi-informant approach. Journal of Consulting and Clinical Psychology, 66, 237-347. Gini, G., Albiero, P. & Benelli, B. (2005). Relazione tra bullismo, empatia ed autoefficacia percepita in un campione di adolescenti. Psicologia Clinica dello Sviluppo, 3, 157-172. Huesmann, R. (1982). Television violence and aggressive behavior. Washington DC: US Government Printing Office. Huesmann, R., Moise, J.F., & Podolski, C.L. (1997). The effects of media violence on the development of antisocial behavior. Handbook of Antisocial Behavior, 21, 181-193. Olweus, D. (1973). Hackkycklingar och oversittare. Forskining om Skolmobbning. trad. it. (1983) L’aggressività nella scuola. Roma: Bulzoni. Olweus, D. (1986). Mobbning: vad vi veto ch vad vi kam gora. Stockholm: Liber. Olweus, D. (1991). Bully/victim problems among school children: Basic facts and effects of a school based intervention program. In D. Pepler and K. Rubin. The development and treatment of childhood aggression. Hillsdale: Lawrence Erlbaum Associates. pp. 411-448. Pepler, D. J., Craig W. M. (1995). A peek behind the fence: Naturalistic observations of aggressive children whith remote audiovisual recording. Developmental Psychology, 31, 548-553. Paajanen, S., & Viemero, V. (1992). The role of fantasies and dreams in the tv viewing-aggression relationship. Aggressive Behavior, 18, 109-116.
Salmivalli, C. (1996). Bullyng as a group process: Participant Roles and relations to social status within the group. Aggressive Behavior, 22, 1-15. Zillmann, D. (1984). Connections between sex and aggression. Hillsdale, NJ: Lawrence Erlbaum Association.

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Stress da isolamento sociale: risposte neuronali diverse tra maschi e femmine

Canada. Analizzate nei topi le reazioni neurobiologiche all'isolamento sociale
Canada. L'isolamento sociale può essere fonte di stress e provocare risposte neuronali differenti in base al genere sessuale. In modo particolare, gli appartenenti al genere femminile si mostrano maggiormente colpiti dagli effetti che l'isolamento provoca su alcune cellule cerebrali.
A sostenerlo è uno Studio pubblicato l'11 Ottobre 2016 sulla rivista online eLife, condotto da un team di ricercatori canadesi presso l'Hotchkiss Brain Institute dell'Università di Calgary.
Premesse della ricerca. Come sottolineano gli autori dello Studio, molte malattie neuropsichiatriche presentano differenze tra i due sessi. Questa differenza può far sì che tra maschi e femmine vi sia una diversa sensibilità di risposta ai fattori di stress. Studi sugli esseri umani hanno mostrato come le ragazze siano più sensibili ai cambiamenti nelle situazioni sociali rispetto ai ragazzi e traggano maggiori vantaggi per la gestione dello stress dal sostegno sociale e dalle dinamiche di gruppo, quindi dalla presenza di una rete sociale.
Ipotesi. Per via di queste premesse, i ricercatori canadesi hanno ipotizzato che, interrompendo la rete sociale - costringendo, cioè, un soggetto all'isolamento - potrebbero verificarsi cambiamenti neurobiologici soprattutto in chi appartiene al genere femminile. Per verificare questa ipotesi, hanno condotto un esperimento su topi di laboratorio.
Sviluppo dell'esperimento. I roditori sono stati suddivisi in gruppi dello stesso sesso composti da 3-5 soggetti ciascuno. Alcuni topi sono stati, poi, isolati dagli altri per 16-18 ore.
Esaminandone successivamente le attività cerebrali, i ricercatori si sono accorti di come quel breve isolamento avesse influenzato alcuni neuroni nei topi di sesso femminile: si era verificato un rilascio di corticosterone, una sostanza chimica che viene prodotta in risposta a situazioni di stress e che diminuisce l'eccitabilità delle cellule cerebrali. Le femmine di topo, quindi, una volta isolate, risultavano più stressate. Questa reazione non era stata riscontrata nei topi maschi della stessa età.
In seguito i ricercatori hanno sottoposto gli animali ad un ulteriore esperimento, obbligandoli a nuotare per 20 minuti. In questo caso la reazione dei roditori allo stress fisico provocato dalla nuotata è stata uguale nei maschi e nelle femmine.
Conclusioni. Secondo il team canadese, i risultati ottenuti dalla sperimentazione sui topi evidenziano come maschi e femmine reagiscano in modo diverso a certi tipi di situazioni e non ad altre, motivo per il quale è importante tener conto anche del sesso degli animali nel momento in cui si indaga sull'influenza esercitata dallo stress sul cervello.
Inoltre, dimostrano come l'isolamento sociale provochi reazioni nelle cellule cerebrali in maniera diversa tra i due sessi, colpendo nello specifico i soggetti di genere femminile, che percepiscono e vivono questo fenomeno come fonte di stress.
Fonte:
◦ L. Senst, D. Baimoukhametova, T.L. Sterley, J.S. Bains, "Sexually dimorphic neuronal responses to social isolation", articolo pubblicato su eLIFE, 11 Ottobre 2016 elifesciences.org/content/5/e18726

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TOSSICODIPENDENZA
La tossicodipendenza è una condizione in cui ci si trova gradualmente a non poter controllare il desiderio di assumere una certa sostanza. La persona tossicodipendente avverte la necessità irrefrenabile e frequente di assumere droga, nonostante il danno fisico, psicologico, affettivo, emotivo o sociale che tale assunzione può comportargli come conseguenza. Una delle caratteristiche delle sostanze stupefacenti è quella di provocare, nell’individuo che le assume, una condizione di dipendenza fisica o di dipendenza psichica. Nel primo caso si parla dei processi di “assuefazione”, “tolleranza” e “astinenza”, per cui il fisico modifica il suo equilibrio in base all’assunzione della sostanza, ne richiede una quantità sempre maggiore per mantenerne gli effetti, e provoca sintomi legati ad astinenza nei momenti in cui se ne sospende l’assunzione. Nel caso della dipendenza psichica, subentra un bisogno psicologico di assumere continuativamente la sostanza, in quanto associata ad uno stato di benessere, rilassamento, autostima, fiducia in se stesso e assenza di ansia. E’importante fare una distinzione tra “abuso” e “consumo” di sostanze. L’abuso di una sostanza è legato a bisogni profondi, ad un equilibrio psicologico ed esistenziale, in cui il rapporto esclusivo con la sostanza e gli effetti che produce, conducono ad un coinvolgimento totale della persona. Il consumo, invece, è spesso legato alla curiosità, alla ricerca di nuove forme di piacere, alla moda, alla voglia di sperimentare gli effetti e di fare esperienze, Capire le motivazioni della persona aiuta a spiegare il motivo per cui la persona assume droga. Le cause dell'abuso e della dipendenza, e la gravità del quadro patologico variano a seconda del tipo di sostanza usata, del dosaggio e durata dell’assunzione, della personalità di chi l’assume e delle circostanze in cui tale sostanza viene consumata.

CARATTERISTICHE DELLE TOSSICODIPENDENZE
Il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-IV) descrive la dipendenza da sostanze come un comportamento che si manifesta con tre (o più) delle situazioni seguenti, che si verificano in un periodo di almeno 12 mesi: Tolleranza, definita da una o dall'altro delle seguenti condizioni: a) necessità di un marcato aumento della quantità della sostanza per raggiungere l'intossicazione o l'effetto desiderato; b) un effetto marcatamente diminuito con l'uso continuato della stessa quantità della sostanza; Astinenza: la stessa (o molto simile) sostanza è presa per alleviare o evitare i sintomi dell'astinenza; La sostanza è presa in quantità maggiori o per un periodo di tempo più lungo di quanto si intendesse; C'è un desiderio persistente o tentativi infruttuosi di smettere o controllare l'uso della sostanza; Grande quantità di tempo passato in attività necessarie a ottenere la sostanza (per esempio, visitare molti medici o guidare per lunghe distanze), usare la sostanza o recuperare dai suoi effetti; Importanti attività sociali, occupazionali o ricreazionali vengono interrotte o ridotte a causa dell'uso della sostanza; L'uso della sostanza è continuato nonostante la conoscenza di avere un persistente o ricorrente problema fisico o psicologico che è stato causato o esacerbato dalla sostanza.

CAUSE DELLE TOSSICODIPENDENZE
È stato notato che alcune persone sono più a rischio di altre per l’abuso di sostanze, in quanto potrebbero ereditare dai genitori la predisposizione alla dipendenza, o potrebbero essere presenti alcuni disturbi della personalità o, più semplicemente, assetti comportamentali per alcuni versi anomali. Tuttavia, anche la pressione sociale e altri fattori esterni, come stress, povertà e altre malattie, potrebbero influenzare l’individuo, rendendolo più vulnerabile al disturbo. Il ricorso alle droghe, quindi, non rappresenta solo un intervento di automedicazione, seppure nel senso più ampio del termine, ma un vero e proprio supporto esterno che aiuti ad affrontare la vita e le difficoltà personali.

SOSTANZE STUPEFACENTI
Cannabis: include tutte le sostanze psicoattive derivate dalla pianta cannabica, più le sostanze chimicamente simili. Le più comunemente usate sono matijuana e hashish. Effetti: altera la percezione inducendo rilassamento, sonnolenza, voglia di parlare e di ridere. Dosi elevate possono portare episodi di confusione, disorientamento, agitazione e panico;
Eroina: appartiene alla categoria degli oppioidi naturali, insieme alla morfina e al metadone. Tra le droghe è la più mortale e dà forte assuefazione. Effetti: riduce gli stati di ansia e angoscia determinando sensazioni di calore e tranquillità. Riduce la sensibilità e le reazioni emotive al dolore. Dosi elevate provocano sedazione, stupore, sonno, perdita di coscienza. Dosi ripetute con una certa frequenza inducono tolleranza e dipendenza fisica;
Cocaina: è uno stimolante ed eccitante molto potente, gli vengono riconosciuti anche effetti afrodisiaci, ed è una droga che agisce direttamente sul cervello. Questa droga a effetti collaterali pericolosi, infatti chi ne abusa può perdere la ragione , e riscontrare danni al cervello , avere manie ed idee fisse che la portano a vivere una dimensione irreale , con sintomi paranoici.
Il "Crack" è una forma solida della cocaina a base libera. Il nome “crack” deriva dal rumore che questa sostanza produce quando viene riscaldata e fumata.
Ecstasy: è la molecola più nota di una classe di farmaci (MMDA) da un punto di vista strutturale, correlata sia all’amfetamina che alla messalina (un allucinogeno). È conosciuta anche con il nome MDMA. Effetti: stimola il sistema nervoso e produce allucinazioni, ideazione paranoidea, senso di realizzazione e di forza. A livello fisico produce tachicardia, oscillazioni dei valori della pressione, nausea, brividi, calore, involontario serramento dei denti, crampi muscolari e vista sfocata. Sintomi riscontrati in consumatori abituali di ecstasy sono livelli di ansia molto elevata, impulsività, aggressività, disturbi del sonno, perdita di appetito, perdita di interesse nel sesso e perdita delle sensazioni di piacere ad esso collegate.
Amfetamina e metamfetamina: l’amfetamina è una sostanza di sintesi, stimolante, presente in alcuni farmaci disponibili sul mercato. La metanfetamina, “figlia” della precedente, è un potente stimolante che da assuefazione e causa, anch’essa, gravi danni al sistema nervoso centrale. È comunemente conosciuta come “speed”, “ice”, “crystal” o “cranck”.
Allucinogeni: sono sostanze attive che provocano illusioni sensoriali, ossia fanno vedere e sentire cose che non esistono. Queste sostanze, quindi, influenzano sensibilmente le percezioni e l’interazione con l’ambiente circostante. Tra le droghe di questo tipo troviamo l’LSD, che provoca allucinazioni visive, uditive e sensoriali importanti, che possono essere percepite in maniera positiva o negativa (stati di panico, di perdita dell'autocontrollo, di stati deliranti e confusionali, paura di impazzire). Altri allucinogeni conosciuto i cosiddetti “funghetti magici”, molto simili a quelli dell'LSD, ma più deboli.

CAUSE COME AFFRONTARE LE TOSSICODIPENDENZE E IL DISAGIO PSICOLOGICO
La disintossicazione e la perdita di dipendenza da sostanze d’abuso è possibile, ma è necessario non essere soli in questo percorso di cura. Abbandonare l'uso di una droga è molto difficile e richiede almeno un supporto psicologico, unitamente ad una forte motivazione e all’aiuto di uno dei diversi centri di prevenzione e di disintossicazione presenti su tutto il territorio nazionale. Spesso può essere necessario un supporto farmacologico, uno o più farmaci che aiutino a superare le sensazioni spiacevoli, psicologiche e fisiche connesse con la dipendenza. Purtroppo non esiste ancora una medicina miracolosa capace di annullare il desiderio della droga, anche se diverse sostanze sono ancora in sperimentazione. Una sostanza molto discussa, che viene usata come sostituto dell’eroina contro le sindromi di astinenza, è il metadone. Sembra che abbia un effetto più duraturo dell'eroina (basta una somministrazione al giorno) e che, somministrato oralmente, non ha gli effetti euforici dell'eroina che aumentano la tossicodipendenza. L’uso di questa sostanza e la graduale sospensione può aiutare ad uscire dalla dipendenza, ma non previene possibili ricadute. Per avanzare un percorso di trattamento, gli operatori devono saper leggere a 360 gradi i problemi della persona tossicodipendente e non fermarsi ai soli aspetti sanitari. Vi è infatti la necessità di comprendere bene e contemporaneamente tutte tre le dimensioni: sanitaria, psicologica e socio-realzionale. È necessario, inoltre, dare priorità all'interesse e allo sviluppo di attività per il reinserimento sociale e lavorativo dei tossicodipendenti. Tutto questo si può fare attraverso l'attivazione di programmi e corsi di formazione professionale che permettano concretamente e realisticamente alla persona in trattamento di recuperare e sviluppare abilità e cultura. Le possibili strade da intraprendere per affrontare la disintossicazione ed uscire dal tunnel della dipendenza, sono i SerT, le comunità terapeutiche, le unità di strada e diversi tipi di psicoterapia.

CONSIGLI PER CHI STA VICINO A PERSONE TOSSICODIPENDENTI
Ci sono degli elementi che possono aiutare i familiari a capire se un proprio caro sta entrando nel tunnel della droga.
Si può infatti notare:

  1. un cambiamento delle abitudini;
  2. difficoltà scolastiche e/o di lavoro;
  3. repentini sbalzi di umore;
  4. frequentazioni e amicizie diverse;
  5. ripetute e frequenti assenze;
  6. isolamento; cambi di orari;
  7. richiesta di denaro; scomparsa di oggetti da casa;
  8. insofferenza;
  9. mancanza di progetti;
  10. dimagrimento a vista d’occhio (per chi usa eroina o morfina);
  11. perdita dell’appetito e aumento di assunzione di bevande;
  12. occhi arrossati o lucidi o pupille a “spillo”;
  13. tendenza ad addormentarsi sempre più spesso.

Rimane però molto difficile che la famiglia sia in grado di gestire i tanti problemi che comporta la presenza di un tossicodipendente in casa. Si suggerisce, in ogni caso, di appoggiarsi sempre a persone, enti e associazioni che conoscano il problema e possano garantire un programma educativo a medio-lungo termine.

PSICOTERAPIA A SUPPORTO DELLE TOSSICODIPENDENZE
Trattamenti psicoterapeutici sono ampiamente utilizzati per i disturbi da uso di sostanze e includono terapie individuali, familiari e di gruppo. Insieme agli obiettivi specifici per la dipendenza, che comportano la cessazione dell’autosomministrazione della sostanza, la psicoterapia affronta temi inerenti anche ad altri aspetti della vita dei pazienti, sia passati che presenti, supponendo che alcuni di questi contribuiscono al loro attuale uso di sostanze.
Psicoterapia individuale: Tecniche psicoterapeutiche derivanti da diversi orientamenti sono state adattate perché si concentrassero in modo specifico sul trattamento della dipendenza. Tali tecniche sono l’approccio psicodinamico, la psicoterapia supportivo-espressiva, quella interpersonale, le terapie cognitive. Le strategie comportamentali sono state utilizzate in combinazione con altri trattamenti.
Psicoterapia di gruppo: questo tipo di trattamento della dipendenza ha rappresentato la soluzione più popolare a questo problema e, attualmente, è l’intervento di elezione. Il gruppo ha la capacità di sostenere e mettere a confronto, di confortare e sfidare, di coinvolgere i suoi membri in incontri che aumentano distintamente la consapevolezza dei problemi personali e del carattere. Il gruppo ha la capacità di fornire un luogo sicuro per il cambiamento.
Terapia familiare: rappresenta un contributo prezioso e spesso necessario al trattamento, in particolar modo quando è integrato in un programma complessivo. Questo approccio terrà conto dei modelli interattivi, di comunicazione, i rapporti della famiglia, le alleanze e i ruoli principali, le regole e i confini, i legami e gli stili di conflitto.

SERVIZIO DI AIUTO E ACCOGLIENZA
SerT (Servizi pubblici per le Tossicodipendenze): l’organico di questi servizi è multiprofessionale ed è costituito da medici, psicologi, sociologi, assistenti sociali, educatori, infermieri professionali, operatore tecnici per l’assistenza. Gli interventi sono rivolti alla persona globalmente intesa, riguardano riabilitazione, riduzione del danno e coinvolgono differenti strutture e varie figure professionali.
CeIS (Centro Italiano di Solidarietà): si occupa di prevenzione di comportamenti a rischio, orientamento, sostegno psicopedagogico e reinserimento familiare e sociale per adolescenti in situazione di disagio, trattamento terapeutico e riabilitazione sociale per persone tossicodipendenti, alcoliste, vittime di patologie compulsive, sieropositive per il virus Hiv, auto mutuo aiuto e altri approcci psicoterapeutici per familiari di persone in difficoltà. La sua attività rivolta ai tossico dipendenti si divide in programmi: Accoglienza, Serale, Meta, San Carlo, Castel di Leva, Santa Maria, Madre e Bambino.
Comunità Terapeutiche: le Comunità Terapeutiche per tossicodipendenti permettono di effettuare programmi terapeutici individualizzati della durata di almeno 24 mesi in strutture residenziali o semi-residenziali. La scelta di attuare un programma terapeutico di tipo residenziale viene concordata tra gli operatori dei SERT e la persona tossicodipendente che ha maturato la consapevolezza delle proprie problematiche personali e che sceglie un contesto protetto per avviare un percorso di recupero psico-sociale. Nella fase di avviamento alla Comunità Terapeutica, gli operatori dei SERT hanno il compito di valutare lo stato di motivazione al cambiamento e la reale capacità di adesione al programma terapeutico della persona tossicodipendente, e di informarla sulle differenti metodologie e programmi operativi delle Comunità Terapeutiche.

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Valutazione psicologica, potenziamento e riabilitazione in ambito DSA

 

I DSA rappresentano attualmente una delle problematiche maggiormente segnalate dagli insegnanti delle scuole italiane.

La collaborazione tra famiglia, insegnanti e psicologo esperto in DSA risulta essenziale al fine di programmare l’intervento più adatto a sostegno degli alunni che presentano disturbi nell’apprendimento scolastico.

Il ruolo dello psicologo risulta di fondamentale importanza e si articola in tre livelli: la valutazione psicologica e neuropsicologica, il potenziamento e lariabilitazione e infine la consulenza e la formazione ad insegnanti e genitori.

Per quanto riguarda la valutazione neuropsicologica, lo psicologo procede ad una valutazione sistematica delle competenze dl soggetto, rilevando non solo i punti di debolezza, ma anche quelli di forza, indispensabili per progettare le strategie e le metodologie didattiche più adatte.

La valutazione neuropsicologica prevede innanzitutto la valutazione dello stato del livello cognitivo (QI) attraverso la somministrazione di test specifici e standardizzati. Inoltre, compito dello psicologo è anche quello di somministrare dei test che misurino la lettura strumentale, la comprensione del testo, le competenze ortografiche, la grafia e le abilità matematiche, in associazione anche ad altri test che rivelino probabili ulteriori problematiche sottolineate dalla scuola o dalla famiglia, come l’attenzione e/o la memoria.

Oltre agli aspetti cognitivi, risulta di fondamentale importanza valutare anche lo stato emotivo del soggetto. Per indagare questo aspetto, vengono utilizzati il colloquio clinico, l’osservazione e la somministrazione di test.

Un altro ambito in cui è previsto l’intervento dello psicologo è quello di potenziamento e di riabilitazione neuropsicologica, attraverso degli incontri che hanno lo scopo di allenare il soggetto nella specifica abilità deficitaria grazie all’ausilio di strumenti carta-matita o anche di software pensati proprio per il recupero di soggetti con disturbo dell’apprendimento.
L’intervento deve avere una durata di almeno 3 mesi con una frequenza di due-tre volte a settimana (ambulatoriali o a domicilio) per il raggiungimento della correttezza e rapidità di esecuzione (es: lettura e scrittura strumentale, calcolo mentale) ed interventi della durata di tre-sei mesi una volta a settimana per l’acquisizione di strategie meta cognitive.

Di fondamentale importanza risulta anche l’intervento dello psicologo nella formazione e nella consulenza sui DSA rivolti agli insegnanti e ai genitori.
La famiglia deve essere informata del disturbo riscontrato, degli interventi riabilitativi e degli strumenti che devono essere messi in atto affinché l’intervento abbia successo.
È importante supportare gli insegnanti nella stesura del PDP (piano didattico personalizzato), in cui insieme alla famiglia vengono stabiliti gli obiettivi e la metodologia didattica che deve essere utilizzata per l’intervento.

Inoltre, lo psicologo deve anche consigliare le strategie da utilizzare per svolgere i compiti anche a casa.

Il PDP prevede inoltre gli strumenti compensativi e le misure dispensative.

Gli strumenti compensativi vanno utilizzati quando c’è una limitazione importante dell’autonomia rispetto alle esigenze personali e le richieste ambientali e laddove semplici adattamenti didattici risultano essere insufficienti.

Gli strumenti compensativi sono strumenti didattici (tecnologici o non tecnologici) che sostituiscono o facilitano la prestazione richiesta nell’abilità deficitaria.

Nelle linee guida alla legge 170/2010, vengono indicati fra i più noti:
•     la sintesi vocale, che trasforma un compito di lettura in un compito di ascolto;
•     il registratore, che consente all’alunno o allo studente di non scrivere gli appunti della lezione;
•     i programmi di video scrittura con correttore ortografico, che permettono la produzione di testi sufficientemente corretti senza l’affaticamento della rilettura e della contestuale correzione degli errori;
•     la calcolatrice, che facilita le operazioni di calcolo;
•     altri strumenti quali tabelle, formulari, mappe concettuali, etc. 

Le misure dispensative vengono scelte quando gli strumenti compensativi non sono sufficienti per permettere una sufficiente autonomia e dei risultati scolastici compatibili con le potenzialità di apprendimento e l’impegno nello studio. Secondo le linee guida della legge 170/2010 (.PDF), le misure dispensative sono interventi che consentono all’alunno o allo studente di non svolgere alcune prestazioni che, a causa del disturbo, risultano particolarmente difficoltose e che non migliorano l’apprendimento.

Per fare un esempio è possibile dispensare uno studente con dislessia dalla lettura di un lungo brano perché questo tipo di esercizio non migliora la sua prestazione, proprio per via del disturbo.
Una misura dispensativa può essere quella di consentire allo studente di avere più tempo a disposizione per lo svolgimento di un compito, perché ha bisogno di un tempo più lungo rispetto ai compagni per decodificare il compito.

Nel caso in cui non fosse possibile prevedere del tempo in più, si può optare per una riduzione del lavoro rispetto a quello dei compagni. In questo modo lo studente con DSA non verrà penalizzato dal proprio disturbo nell'esecuzione del compito. E' importante valutare con attenzione l'efficacia delle misure dispensative da adottare, per evitare così di creare dei percorsi formativi per gli studenti con DSA che siano troppo facili e poco stimolanti e neppure così impegnativi da risultare inaccessibili. Nel caso in cui uno studente presenti un DSA è necessario che sia presentata alla scuola la certificazione e la diagnosi.

Per quanto riguarda la normativa, la legge 170 per i DSA pone l’accento su diverse questioni relative alla diagnosi e all’intervento scolastico in presenza di alunni con DSA.

In particolare, l’art. 3 sottolinea che è compito della scuola attivare degli interventi atti ad individuare i casi sospetti di DSA, mentre l’art. 5 stabilisce che i DSA hanno diritto a fruire di appositi provvedimenti dispensativi e compensativi, di flessibilità didattica sia nel corso dei cicli di istruzione che all’università.

Tutto questo deve avvenire attraverso l’utilizzo di una didattica individualizzata e personalizzata a seconda delle necessità del soggetto e delle sue caratteristiche peculiari come, ad esempio, il bilinguismo. La legge 170/2010 che garantisce e tutela il diritto allo studio degli studenti con DSA è ispiratrice della normativa riguardante gli studenti con BES.

La legge 170/2010, a tal punto, rappresenta un punto di svolta poiché apre un diverso canale di cura educativa, concretizzando i principi di personalizzazione dei percorsi di studio enunciati nella legge 53/2003, nella prospettiva della “presa in carico” dell’alunno con BES da parte di ciascun docente curricolare e di tutto il team di docenti coinvolto. (Direttiva Ministeriale BES – 27 dic 2013). 

Pubblicato da Elisabetta Mazzarella

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